La scissione socialista? Un vizio congenito

Già nel 1892, alla nascita, il partito bandì la corrente anarchica. Poi in oltre un secolo di vita fratture ed espulsioni sono state una quindicina

Roberto Scafuri

da Roma

Quando si ha nel dna Mikail Bakunin, il grande anarchico russo, appare evidente quanto l’apporto di Marco Pannella alla corrente sempre in tensione del socialismo italiano fosse del tutto superfluo. Nel primissimo tentativo di federare le Associazioni nazionali degli operai, tenutosi a Rimini nel 1872, tra i circa 30mila iscritti si contavano ben 25 sezioni di orientamento diverso. Fatto è che Bakunin, che se la vedeva vis-à-vis con Karl Marx, era un fierissimo avversario delle organizzazioni rigide, trovandosi - in questo - assolutamente d’accordo con il pensatore di Treviri. Il quale sosteneva che al proletariato «le sue organizzazioni, i suoi fortilizi non servono per dargli un patrimonio».
Ma anche Marx, a un certo punto, ritenne opportuno darci un taglio. L’organizzazione era inutile al proletariato, ma solo «finché di fronte al potere esso è l’eterno diseredato». L’unica via, la via maestra, era perciò che i movimenti preparassero l’avvento della rivoluzione, sapendo che «nella battaglia rivoluzionaria il proletariato non ha da perdere altro che le sue catene, mentre ha un mondo da guadagnare». Non è appurato che Bobo Craxi e Zavettieri da un lato, De Michelis e Caldoro dall’altro, stiano dando vita all’ennesima frattura del socialismo italiano sulla base di questo, per così dire, difetto genetico.
Eppure è da qui che occorre ripartire per spiegarsi la quindicina di scissioni, espulsioni, riunificazioni che tormentano da sempre la vita del Psi. Emettendo i primi vagiti, il 14 agosto 1892 a Genova, il partito espulse gli anarchici e scelse come nome Partito dei lavoratori italiani. L’anno seguente, a Reggio Emilia, il congresso modificò il nome (inequivocabile segno di frattura) chiamandosi Partito socialista dei lavoratori italiani (Psli). Solo al terzo tentativo, Parma 1895, il Psi era finalmente battezzato. Non di questioni nominalistiche e dunque identitarie si trattava, perché il dibattito dell’epoca verteva sull’azione rivoluzionaria. Mezzi pacifici attraverso le istituzioni borghesi o rifiuto totale e rivoluzione? Fu su questo crinale che nel 1907 vennero messi alla porta i «soreliani», ovvero i sindacalisti rivoluzionari che delle «Riflessioni sulla violenza» di Georges Sorel fecero il proprio verbo. Frattura sancita al congresso di Firenze l’anno successivo.
Ancora scosse di assestamento, con l’espulsione dei riformisti nel ’12, congresso di Reggio Emilia, e l’effimero avvento dei massimalisti interventisti di Mussolini. Nel ’14 finirono fuori dal partito anche costoro, assieme a una corposa componente massonica. Quando si parla di scissioni del Psi, però, si intende soprattutto quella del ’21, la più dolorosa e carica di conseguenze. La rivoluzione dei Soviet in Russia si era propagata peggio di una influenza aviaria fin dal ’17 e al XVII (quando si dice la scaramanzia) congresso di Livorno i delegati abbandonarono fragorosamente i lavori, per dare vita, al teatro San Marco, al Partito Comunista d’Italia. Passioni violente, da un lato e dall’altro. Anna Kuliscioff scrisse in una lettera, durante il congresso, che cosa pensava degli scissionisti: «Sono i comunisti una baraonda di ubriachi, violenti e settari: ci vuole un taglio netto. Per voi riformisti non rimane che trangugiare il coccodrillo russo o andarvene alla spicciolata...».
Ma oramai ci avevano fatto l’abitudine, tanto che gli scissionisti furono apostrofati con invettive condite con una certa aria di sufficienza: «Ve ne andrete, abbiamo visto altri andarsene, i sindacalisti, gli anarchici, abbiamo visto altre sfrondature... Voi siete piccoli gruppi di gente, di illusi, di arrabbiati o maniaci della violenza che andate e che subirete la stessa sorte degli altri...». La replica di Amedeo Bordiga fu veemente e a suo modo profetica: «Noi, se dovremo andarcene, vi porteremo via l’onore del vostro passato, o compagni!». Nel ’22, al successivo congresso di Roma, Turati, Treves, Matteotti diedero vita al Psu (Partito socialista unificato), distinto dal Psi del massimalista Serrati. La riunificazione avvenne in esilio, nel ’30 a Grenoble, così che nell’agosto del ’43 i socialisti potessero dare vita al Psiup (Partito socialista italiano di unità proletaria).
La storia del Dopoguerra è nota, spesso intrecciata con interessi di potenze straniere. Nel ’47 a Palazzo Barberini Giuseppe Saragat, con aiuti americani, dette vita a un nuovo Psli, poi diventato Psdi. E nel ’64, su impulso dell’Urss, l’ala di sinistra di Tullio Vecchietti si staccò dal Psi per rifondare un Psiup dalla scarsa fortuna. Nel ’68 l’effimera «bicicletta» del Psu, subito scissa di nuovo in Psi e Psdi. Con Tangentopoli, ecco sorgere dalla diaspora del Psi craxiano prima il «Si», poi il «Partito laburista» (confluito nei Ds), quindi lo «Sdi». Nel 2000, l’ultima fatica di De Michelis, Martelli, Intini, con il «Nuovo Psi». Oggi la scissione, che non va considerata con il metro dell’evento drammatico. Quanto piuttosto col metro di Turati, «ogni scorcione allunga il cammino, la via lunga è anche la più breve...».

O delle bellissime parole di Claudio Treves: «Quanto a noi, avviliti, cacciati, umiliati, percossi, morti davanti alle innegabili cruente vittorie vostre, vi diciamo: voi avete distrutto dei materiali esteriori del socialismo, noi li rifaremo...».

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