È nel sangue, come una malattia, un destino, una maledizione. È il carattere di una famiglia, di una terra, di un popolo, qualcosa che perdura di anno in anno, trascinandosi a lungo e scavallando i secoli e non si lava, non scompare, come una macchia indelebile che parte dai caratteri, dagli istinti più antichi, e poi si fa politica, piazza, frattura umana, fino a che gli uni e gli altri smettono di riconoscersi, incapaci di spartirsi il futuro della città, con lo stesso sguardo dei gemelli cresciuti dalla lupa, fratricidi, perché solo uno tra Romolo e Remo può avere diritto di parola, può sopravvivere. È così da sempre e passa dal «io sto con chi», con il Papa o con l'imperatore, Guelfi o Ghibellini e se a vincere sono i primi neppure basta, perché poi diventa questione di famiglie, vecchie o nuove, nere o bianche. No, non finisce mai. Passa per il rosso e il nero, per comunisti e fascisti, partigiani e repubblichini, per i pugni chiusi e la mano aperta, per come ti vesti e che quartieri frequenti, per la città o per la campagna, perfino per la doccia o la vasca da bagno. È come se questa gente avesse bisogno di un nemico per definirsi. Lo cercano, lo bramano e non serve scavallare il Duemila per trovare pace. È questione di tipi umani e se si incrociano si annusano e si ringhiano. Ancora adesso, anche se si illudono di portare nomi diversi. «Noi con quegli altri non ci viviamo. Non stringiamo le mani». È così che di generazione in generazione si rigenera la giostra, più o meno assassina, di una guerra civile che si nutre di parole.
È un romanzo, da scrivere e riscrivere, da mettere sulla carta, segnando le varianti, come fa Pierluigi Battista con La casa di Roma (Nave di Teseo, pagg. 304, euro 19). È una storia di famiglia, una qualsiasi, ma che assomiglia a tante altre, solo che qui ha il passo della letteratura e allora ti racconta ciò che siamo nel profondo, perché incarna quel destino che si fa tragedia o farsa pubblica, vicenda comune ma non condivisa, dove ognuno da padre in figlio, da nonno a nipote, continua a giudicare gli eventi dal suo punto di vista. È una biforcazione binaria e si continua a ballare tra lo zero e l'uno. C'è la possibilità di deragliare da questo ping pong? Bisogna riconoscersi.
Tutto comincia nelle profondità del Novecento. È il bivio di due fratelli. «Uno, il maggiore, era Raimondo, nato durante la Prima guerra mondiale, precisamente nel 1917, e infatti lui, comunista granitico, amava dire di essere nato nell'anno della Rivoluzione bolscevica d'ottobre, giusto un mese prima dei dieci giorni che, mutuando un celebre titolo che citava ossessivamente, sconvolsero il mondo. L'altro fratello, il minore, era Emanuele, fascista antropologico, come si definiva con una certa civetteria, anche se non ho mai capito cosa intendesse con quell'antropologico».
Pigi Battista le sa raccontare bene le storie. Lo ha fatto con Mio padre era fascista o con la Fine del giorno o ancora con A proposito di Marta. La casa di Roma è però un romanzo, un romanzo epistolare, dove l'autobiografia fa un passo indietro. La casa è un villino a Prati, quartiere romano squadrato e ordinato, costruito dai piemontesi dopo l'unità d'Italia proprio a ridosso del Vaticano. È qui che i discendenti di Raimondo e Emanuele, la famiglia Grimaldi, sono costretti a convivere. Non tutto è rosso e nero. Ci sono zone grigie. C'è chi scappa dall'ideologia e magari trova nella musica una via di fuga. C'è chi cerca altre strade e chi non si rassegna a sopportare il clima divisivo della casa. Neppure il rosso e il nero è scontato, perché dal padre comunista spunta un figlio fascio e viceversa. Lo scontro di identità si ripresenta, ma invertito, allo specchio, come se il caso si divertisse a mischiare le carte, lasciando però costante il gioco collettivo. Il tradimento non riesce a sovvertire e spezzare il destino. Non deraglia. L'unica possibilità è fermarsi, mettere un punto. È quello che fa Marco, giovane sceneggiatore, che si mette in testa di scrivere un romanzo sulla sua famiglia e chiede alla madre e allo zio di ricostruire la storia. Chiede di condividere. Chiede di riconoscere un passato comune. È un romanzo nel romanzo. È un romanzo, quello di Marco, che forse non verrà mai davvero scritto. «Restano i frammenti e i coriandoli di una famiglia». Il romanzo di Marco no, quello non resta. È la sconfitta filosofica e storica della «non appartenenza». È l'impossibilità di trovare pace, nonostante tutto quello che c'è fuori dal rosso e dal nero.
I personaggi che Pigi Battista ama di più sono quelli del «tempo storto», quelli che non hanno bisogno di un nemico per esistere. È il loro sguardo che mostra la bellezza della storia della famiglia Grimaldi. La casa di Roma siamo noi.
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