Se il Risorgimento fu al Santiago Bernabeu

La vittoria a Madrid dei mondiali di calcio chiude gli anni di piombo e apre un decennio modernizzatore. L’11 luglio 1982, un popolo intero si dimentica di tutto e passa la notte in bianco per festeggiare in strada

Se il Risorgimento fu 
al Santiago Bernabeu

Dove stavi l’11 luglio 1982? Tutti quelli abbastanza vecchi da rispondere lo sanno. Lo sa chi a cinque anni si è ritrovato sulle spalle del padre con le trombe amplificate di una vecchia Cinquecento che suonano il finimondo. Lo sa il pensionato che ancora lavorava in qualche ministero. Lo sa chi pensa che il calcio sia una roba da dementi, ma quel giorno non sa perché anche lui piangeva con la mano sul petto cantando l’inno di Mameli. Lo sanno l’amante, la suora, la moglie, la madre, la sorella, la prostituta che continuavano a farsi spiegare il mistero gaudioso del fuorigioco. Lo sa chi ancora doveva nascere, perché appunto non c’era, ma ha visto una vecchia foto del padre con i capelli ricci e selvaggi e una bottiglia in mano e una sbornia negli occhi che assomiglia esattamente alle sue. E si chiede se quel ragazzo stonato abbia mai davvero avuto a che fare con quel padre poliziotto o avvocato. La verità è che quel cavolo di mondiale non è solo una coppa del mondo. È qualcosa di strano, che non si spiega, quasi di irripetibile. La coppa al cielo l’abbiamo di nuovo vista, con il rigore di Grosso e la testata di Materazzi. È stato bello. È il mondiale della generazione precaria. Lo racconteranno ai figli. Ma manca qualcosa. Quel giorno spagnolo fu una porta aperta sul futuro, una scossa, una botta di ottimismo, il sogno o l’illusione che qualcosa stava cambiando. La Germania no. La notte di Berlino è finita lì, non c’è stata l’illusione che si incarnasse nella tua vita. È andata, come un ricordo speso in fretta. È vero. Qualcuno non la pensa così. L’autore di Tutta colpa di Paolo Rossi è uno di questi. Questa volta, però, davvero non sei d’accordo con Giuseppe De Bellis.
Santiago Bernabeu non è il nome di una battaglia. Non è Solferino o San Martino. Non è il Piave. Non c’è sangue. Eppure quello stadio, che quella notte di luglio tutto faceva tranne che mormorare, è sentito come un pezzo di terra straniera che ti appartiene. La televisione, ci sono i tuoi amici, le ragazze, i padri e le zie dei tuoi amici, i colori sono quelli delle origini, il bianco e nero è appena passato, con il verde troppo verde dei prati e l’azzurro profondamente azzurro. Tutto è avvenuto in fretta. Incredibile. Inaspettato. La Polonia. Pari. Il Perù. Pari. Il Camerun con la testata di Graziani e ’Nkono che inciampa o fa finta d’inciampare. Pari. Cabrini e Rossi mano nella mano. I giornalisti iene e il silenzio stampa. Parla solo Zoff che notoriamente non parla. Bearzot che mastica la pipa. Dove si va con questa squadra di brocchi e poi succede tutto. L’Argentina battuta due a uno, Maradona cancellato da Gentile. Il Sarria di Barcellona dove si va a sfidare il Brasile più bello e inutile di tutti i tempi. Pablito che risorge. Uno, due, tre volte. I seni giallo oro della torcida brasiliana. Falcao che piange. Brunetto Conti che vola come un Dio o uno gnomo sulla fascia laterale. Il gol annullato ad Antognoni. La mano di Zoff che ferma la palla sulla riga. Gli invincibili nella polvere, l’Italia in semifinale. Due a zero alla Polonia di Boniek e il Santiago Bernabeu come altare della patria. È quasi inutile raccontare quella notte. È un film uguale per tutti. Cabrini sbaglia il rigore, Pertini con la mano che lo rimprovera, il re Juan Carlos che cerca di non farlo sprofondare dalla balaustra e ancora Rossi, elettrone vagante che spunta dal nulla e mette dentro, l’urlo di Tardelli che ogni volta che lo vedi si accende il Nessun dorma come colonna sonora e poi Altobelli con quel pugno alzato senza vigore. Fino alla fine. La voce di Martellini. «Palla al centro per Muller, ferma Scirea, Bergomi, Gentile, evviva è finita! Campioni del mondo, Campioni del mondo, Campioni del mondo!!!».
L’incredibile è quello che avviene dopo. Quella vittoria mundial strappa via d’un colpo il piombo degli anni Settanta, le immagini in bianco e nero, la Renault rossa dove è deposto il cadavere di Aldo Moro, l’austerity e le P38, i rossi e i neri e fa sembrare meno banali perfino le facce dei ministri democristiani. All’improvviso gli italiani non si sentono più fascista e reazionari a parlare di patria. Chissenefrega se è retorico e nazionalista, se certi discorsi li fanno solo i colonnelli in pensione, c’è una voglia incredibile di essere orgogliosi di quello che siamo. Non più pezzenti, non più nascosti, non più marginali. Ti viene voglia di gridare al mondo che queste mani hanno costruito duomi e cattedrali, che Dante è il padre dell’Occidente, che Giulio Cesare e Marco Aurelio erano italiani.

Riscopriamo l’orgoglio, come se quel mondiale spagnolo fosse la nuova disfida di Barletta, con Zoff e Tardelli come Fieramosca e Brancaleone.
A Madrid forse non lo sanno, ma quello stadio che porta il nome del presidente del grande Real non gli appartiene del tutto. Il Santiago Bernabeu è un pezzo d’Italia.

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