Approdato a Milano per partecipare alla quinta edizione del festival «Writers», l'inglese Barry Miles, autore di biografie di personaggi come William Burroughs, Jack Kerouac, Charles Bukowski e Frank Zappa, ci ha raccontato un'infinitesima parte delle storie a cui ha fatto da testimone, se non da prim'attore. Miles, noto ai più per aver firmato Many years from now. Ricordo di una vita, un lungo libro-intervista con Paul McCartney, a Milano ha parlato soprattutto di Allen Ginsberg, fulcro del suo saggio I Settanta, uscito per Il Saggiatore, che peraltro pubblica in Italia l'opera omnia del grande poeta beat.
Si ha la sensazione che Allen Ginsberg fosse un uomo molto curioso su tutto. Qual è il ricordo più vivido che ha di lui?
«È difficile dirlo, perché Allen stava a casa mia ogni volta che veniva a Londra e io vissi per nove mesi nella sua comune nello stato di New York e poi sette mesi in una comune di Berkeley, in California. Però ricordo che nel 1965, mentre Allen abitava a casa mia, venne l'uomo del gas a svuotare la macchinetta in cui si mettevano le monete per poter riscaldare e, per farlo, salì in piedi su una sedia. Ebbene, quell'uomo non ne voleva saperne di scendere dalla sedia: Allen gli stava facendo un sacco di domande sul suo lavoro. Il fatto è che era nudo come un verme».
Com'era vivere nella comune fondata da Allen Ginsberg?
«Più che una comune, era un centro di disintossicazione da varie droghe. La sua speranza iniziale era quella di convincere Jack Kerouac a frequentarla per liberarsi (...)
(...) delle sue dipendenze, ma Kerouac non ci andò mai. Peter Orlovsky, il fidanzato di Allen, in effetti riuscì a limitare il consumo di anfetamine. Gregory Corso provò a combattere il suo alcolismo, peraltro con scarsi risultati. La comune era raggiungibile dopo una camminata di una decina di chilometri. Eppure c'era sempre chi riusciva a far entrare alcol di nascosto».
Quella di Ginsberg per il sesso era una vera e propria ossessione?
«Il sesso era il problema principale di Allen. Lui lo sapeva e ne parlava spesso e apertamente. Ricordo una volta, sul finire degli anni Settanta, al Bunker di New York, durante una visita di William Burroughs. Come al solito, Allen gli chiese: Sei riuscito a scopare, Bill? e Burroughs gli rispose: Piantala, Allen!. Erano come una coppia di anziani che battibeccavano tra di loro».
A proposito di Burroughs, perché a Londra si mimetizzava? In fondo, aveva l'aria di un vecchio lord inglese...
«Lo faceva sempre. In America gli erano successi diversi episodi spiacevoli per via della sua omosessualità e dipendenza dall'eroina. In entrambi i casi, l'ultima cosa da fare è attrarre eccessive attenzioni. Comunque, Burroughs è sempre stato un uomo schivo, non interessato alle chiacchiere da bar. Persino nel periodo trascorso a Tangeri era noto come El hombre invisible. A Londra sembrava un lord inglese e nel Kansas un contadino del Midwest, con tanto di salopette e cappellino da baseball».
Parlava mai della volta in cui aveva ucciso sua moglie durante un folle gioco alla Guglielmo Tell?
«Ne parlava sempre. Diceva che non passava mai giorno senza che fosse divorato da terribili sensi di colpa. Malgrado la sua omosessualità e il suo attivismo per i diritti dei gay, di fatto convisse solo con donne. Con Joan Vollmer visse per sei anni prima di quell'incidente e con lei ebbe un figlio. Persino negli anni vissuti con lei, Burroughs ebbe storie con uomini di cui Joan era del tutto al corrente. Joan sapeva della omosessualità di Bill ancor prima di mettersi insieme a lui».
Lei racconta che, giunti a Big Sur, in California, un luogo molto caro a Kerouac, Ginsberg scoppiò a piangere e lei pure dopo che gli ebbe fatto sentire una registrazione del suo componimento Cavallo di ferro. Ci racconta quelle sensazioni?
«Big Sur aveva un'atmosfera particolare e fu davvero emozionante trovarci lì. In quella baita, Kerouac aveva passato momenti molto difficili. Suonare quel nastro fece il resto. La poesia parla di un gruppo di ragazzi che si stanno recando in treno al luogo di raccolta per andare in Vietnam. Una cosa molto triste che rifletteva il clima del tempo, con un'America sempre più risucchiata nella follia bellica».
In Many years from now, Paul McCartney sembra ossessionato dalla voglia di correggere certe distorsioni sui ruoli all'interno dei Beatles. Era davvero lui il più interessato all'avanguardia artistica?
«Conobbi Paul intorno al 1965, mentre gestivo una libreria su Charing Cross Road in cui si tenevano molti eventi letterari. Il titolare vendette la libreria, con il rischio che tutto ciò finisse. Qualcuno mi presentò John Dunbar, marito di Marianne Faithfull. John voleva aprire una galleria d'arte e decidemmo di unire le forze. Il miglior amico di John Dunbar era Peter Asher, fratello di Jane, al tempo fidanzata di McCartney, che abitava nella loro residenza insieme all'intera famiglia Asher. In sostanza, Peter ci avrebbe messo i soldi e ci prestò la cantina di casa sua per sistemarci i libri e catalogarli. Paul passava quasi tutti i giorni a dare un'occhiata ai libri e ogni tanto ne prendeva uno e lasciava un biglietto. Fu il mio primo cliente e si appassionò al progetto. Era una persona molto curiosa e se ne andava in giro sempre con le antenne dritte. Poteva andare a sentire una cantante sentimentale in una bettola, così come partecipare a una lezione di Berio o a un concerto di John Cage. Quando veniva da me mi faceva ascoltare musica sperimentale, oscura, elettronica. Al tempo, di queste cose non si parlava sulla stampa, molto indietro rispetto alla scena musicale. Un paio di anni dopo, la cosa emerse, soprattutto dopo che John incontrò Yoko in occasione della sua prima mostra pubblica, alla Indica Gallery. Io c'ero. Avvenne il giorno prima dell'inaugurazione. C'erano poche persone, tra cui Anthony Cox, marito di Yoko, che al tempo era quasi sconosciuta. John Lennon si presentò non perché interessato alla mostra, bensì per assumere droghe con John Dunbar, di cui era amico».
E Keith Moon com'era fatto?
«Non posso dire di essere stato suo amico, ma era una persona molto divertente, un diavoletto. Totalmente inaffidabile, ma adorabile. Frequentava spesso un bar dove aveva l'abitudine di andare dietro il bancone, mettere su dischi di poesia, per esempio Dylan Thomas, e spillare pinte di birra per chiunque, facendovi scivolare dentro due o tre dosi di vodka. Gli avventori lasciavano sempre il bar reggendosi a fatica sulle gambe. Forse c'è qualcosa di particolare in tutti i batteristi, perché devono rilasciare una grande energia. Di solito, i batteristi sono molto estroversi. Ringo Starr, invece, era sempre cupo. Non che fosse un batterista fantastico, però faceva la sua parte. Nel periodo di massimo splendore dei Beatles, una rivista lo definì il miglior batterista del mondo e allora John Lennon commentò che Ringo non era nemmeno il miglior batterista dei Beatles. Paul McCartney era meglio di lui e, in effetti, la batteria sul secondo lato del disco Abbey Road la suonò Paul, perché quelle parti erano troppo difficili per Ringo».
Com'era stare al Chelsea Hotel di New York nei Sessanta-Settanta?
«Ti racconto un aneddoto che mi è rimasto impresso e che vede protagonista Harry Smith, il genio sregolato che compilò la Anthology of American Folk Music, la summa della musica tradizionale americana, la raccolta musicale più amata da Bob Dylan. Divenni molto amico di Harry che, al tempo, passava buona parte del suo tempo a mendicare nella hall dell'albergo o nel caffè annesso, il Quijote. Un giorno, Harry tormentò un giornalista della rivista Time per scroccargli dei soldi. Alla fine ottenne una banconota da venti dollari, a cui diede fuoco con l'accendino davanti all'esterrefatto giornalista. Harry era fatto così».
Lei ha vissuto in prima persona l'esplosione del punk a Londra. La violenza che lo caratterizzava era autentica o una mossa commerciale?
«Vivienne Westwood schiaffeggiò una ragazza in un locale solo per vincere la noia e creare i presupposti per un caso clamoroso. Lo fece, spalleggiata da Malcolm McLaren, suo compagno e manager dei Sex Pistols, e da Johnny Rotten. Al tempo, Vivienne e Malcolm facevano cose del genere per farsi pubblicità. Durante un concerto dei Clash vidi Shane MacGowan e la sua ragazza rotolarsi sul pavimento e menarsi, al punto che pensai che lei gli avesse staccato il lobo di un orecchio a morsi, dato che aveva il viso coperto di sangue. In realtà si era tagliato con dei cocci di bottiglia. Bernie Rhodes, il manager dei Clash, lavorava intensamente sui loro atteggiamenti sfrontati, sul loro look arrembante. Tra Rhodes e McLaren, che erano amici, c'era forte competizione. McLaren voleva essere un manager all'antica, uno di quelli in grado di controllare completamente la propria band. Peccato che nei Sex Pistols ci fosse un certo Johnny Rotten, che non era propenso a farsi comandare a bacchetta e a sottostare alle sue stronzate. Quanto ai Clash, Rhodes aveva un forte ascendente su Joe Strummer. Gli altri membri della band volevano solo essere in una rock'n'roll band e sarebbero stati felicissimi di far parte dei Mott the Hoople, che amavano tanto. L'influenza di Rhodes su Strummer fu deleteria, perché Joe finì per licenziare l'unico che sapesse suonare, ovvero Mick Jones. Inoltre, Joe Strummer era un personaggio costruito, un ragazzo di buona famiglia che aveva frequentato ottime scuole e che fingeva di avere un accento proletario, una plateale finzione che mascherava la sua vera parlata borghese. Ma, se è per questo, anche i Pink Floyd erano ricchi figli di papà ben prima di diventare famosi. Provarono a fare musica e ottennero successo quasi per caso. Altrimenti si sarebbero accontentati delle esistenze che il loro background familiare gli avrebbe assicurato.
Il loro primo concerto alla Round House, di fatto, glielo procurai io. Suonarono dopo che io ebbi scritto un pezzo incoraggiante su di loro e, dunque, tornati dalle vacanze, decisero di rimettersi insieme. In fondo, erano solo un gruppo di amici che frequentavano la stessa università».
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