Durante una conferenza sulle Mille e una notte a pagina 62 del libro che citerò tra poco Jorge Luis Borges racconta «una leggenda che sono sicuro vi interesserà». Alessandro Magno, il geniale condottiero macedone, dice Borges, «non muore a Babilonia a trentatré anni». Arso da sublime inquietudine, Alessandro vaga verso Est, si affilia, come soldato semplice, a «guerrieri dalla pelle gialla e occhi obliqui», «partecipa a battaglie in geografie a lui del tutto ignote». Il grande re finisce infine per dimenticare se stesso. Un giorno tra tanti, ricevendo la paga per le sue doti guerresche, si risveglia dal torpore: su una moneta è inciso il suo volto. «Questa è la medaglia che feci coniare per la vittoria di Arbela, quando ero Alessandro il Macedone». Incenerito il proprio passato, torna ciò che è: «un mercenario tartaro o cinese o quel che sia».
Borges che parrebbe un contemplativo, un uomo stretto in una trincea di libri amava gli uomini d'arme: la sua genia, da entrambi i rami, materno e paterno, conta militari d'alto rango, spesso morti sul campo, fra atrocità. Le vicende dei suoi avi, in parte e per enigmi, sono raccolte in un testo, Biografia di Tadeo Isidoro Cruz, che figura tra i meno citati de L'Aleph, il libro più noto di Borges. In quel racconto, tra l'altro, si narra di «Alessandro di Macedonia che vide riflesso il suo futuro di ferro nella favolosa storia di Achille». Borges era sedotto dall'ambiguità di Alessandro, condottiero spietato e femmineo, «che dormiva con l'Iliade e la spada sotto il cuscino». Il libro come arma, il destino inscritto in un poema, una vita geroglifica le mani nella forma della lettera omega questo affascinava Borges. Che Alessandro Magno fosse il punto di congiunzione tra Oriente e Occidente, il «greco» che volle «diventare in parte persiano» ne decuplicava il magnanimo magnetismo.
Ma torniamo alla leggenda. Borges la racconta nell'estate del 1977, al Teatro Coliseo di Buenos Aires. «Questa memorabile invenzione», dice, «appartiene al poeta inglese Robert Graves». In effetti, in uno degli ultimi libri pubblicati in vita, Atlas (1984), miscellanea di ricordi, parabole, agnizioni, Borges ritorna sulla medesima leggenda, usando le medesime parole. Il brano, Graves a Deyà, narra del poeta Graves, appunto ormai vecchio, abulico, dimentico di tutto, circondato dai nipoti. «La moglie gli dava da mangiare col cucchiaio». Borges spiega di aver ricavato la straordinaria leggenda di Alessandro Magno disertore di sé in una poesia pubblicata ne La Dea Bianca, il libro più folgorante di Graves. In realtà, ne La Dea Bianca non c'è traccia di tale leggenda.
Piuttosto, la stessa leggenda la leggiamo in un libro singolare pubblicato da Borges molti anni prima, nel 1953, insieme ad Adolfo Bioy Casares, Racconti brevi e straordinari (in Italia lo ha tradotto Adelphi, nel 2020; di pietrificante bellezza l'edizione di Franco Maria Ricci del 1973). Il testo, Un mito di Alessandro, cita «quel poema di Robert Graves in cui egli sogna che Alessandro il Grande non morì a Babilonia»; a firmare il cammeo è tale Adrienne Bordenave, autore de La modification du Passé. Naturalmente, autore e libro sono fittizi. La poesia di Graves, però, è autentica ed è tra le più belle del suo vasto e quasi sconosciuto, in Italia canone. S'intitola The Clipped Stater, il poeta la accoglie in una raccolta del 1925, Welchman's Hose. Il verso più potente recita così: «Devo realizzarmi attraverso l'autodistruzione». Ormai «divinizzato», Alessandro si fa figlio del «Caos» e sceglie la latitanza; arruolato «come guardia su bastioni di ghiaccio», fissa «sconosciute leghe desertiche», in una terra che pare la Cina. Il resto della leggenda la conosciamo; Borges che scintilla nella sintesi la racconta meglio di Graves.
Il poeta aveva dedicato The Clipped Stater «All'aviatore 338171, T.E. Shaw», che è il nome fittizio di Thomas Edward Lawrence; qualche anno dopo, nel 1927, gli dedicherà una tonante biografia, Lawrence and the Arabs, il suo primo libro di successo. I due il poeta e l'avventuriero litigheranno, Graves finirà per abiurare il mito, eliminando la poesia dai suoi libri.
In una conferenza precedente, dedicata all'incubo, Borges confessa di essere afflitto da due vampiri ricorrenti: il labirinto e lo specchio. «Non sono incubi diversi, giacché bastano due specchi contrapposti a creare un labirinto», chiosa. Non fatichiamo a credergli: la sua stessa opera ci è bastato lo spicchio della leggenda di Alessandro è un labirinto di specchi contrapposti. Sette sere, così, che raccoglie sette conferenze sui temi canonici di Borges ora tradotte da Tommaso Scarano per Adelphi, pagg. 190, euro 14 , non è un libro da leggere (meglio, di Borges, leggere altro), ma da giocare. La conferenza sul buddhismo, ad esempio, dovrà essere avvicinata a Forme di una leggenda, testo accolto in Altre inquisizioni, un tragico elogio del nulla. Così scrive Borges: «Nessuno si spegne nel Nirvana, leggiamo in un trattato famoso, perché l'estinzione di incommensurabili e innumerevoli esseri nel Nirvana è come la sparizione di una fantasmagoria che un incantatore crea per arte magica su una piazza; e in un altro luogo è scritto che tutto è puro vuoto, puro nome, anche il libro che lo afferma e colui che legge». Lo sconcertava torno a Sette sere che «nei monasteri buddhisti... non vengano nemmeno registrati i nomi» dei neofiti. In un'intervista rilasciata alla scrittrice argentina Liliana Heker edita nel 2019 da Castelvecchi come Diffido dell'immortalità Borges predica un'analoga sparizione: «vorrei che venisse dimenticata la mia biografia, e il mio nome».
Nel dialogo dedicato alla cecità il più commovente Borges parla della tigre che ammirava con venerazione da ragazzo nel «giardino zoologico del barrio Palermo». Da allora, la sua opera è sotto assedio della tigre. In El Tigre, prosa lirica raccolta in Storia della notte (1977), rievoca proprio la tigre del barrio Palermo, scoperta insieme alla sorella Norah: «delicata e fatale, carica di infinita energia... fatta per l'amore». Io preferisco quella che balugina in Venticinque Agosto 1983 e altri racconti inediti, raccolta stampata da Franco Maria Ricci «in onore di J.L. Borges nel suo 80° compleanno»: si parla di un uomo, uno scozzese, che sogna tigri azzurre, di Shere Khan e di William Blake, di un «villaggio assai remoto dal Gange», di Dio e di Allah, «due nomi di un solo Essere inconcepibile».
In questo libro fitto di ricorsi, ricorrenze, onirici fraintesi, Borges fa piazza pulita delle storie della letteratura e della burocrazia critica. Per lui la poesia non va discussa né spiegata: la «sentiamo come sentiamo la vicinanza di una donna, o una montagna». Per il grande scrittore argentino, l'etica è iniqua in letteratura, annacqua l'estro, le intenzioni sono inutili; conta soltanto «il fatto estetico», qualcosa «di immediato, indefinibile come lo sono l'amore, il sapore della frutta, l'acqua». Che parole confortanti in questo tempo afflitto da scrittori sociologi o sociopatici!
In un altro paragrafo, torna l'ossessione di Alessandro Magno.
Secondo Borges, l'arte di narrare storie nasce per impulso del grande condottiero: «riuniva uomini della notte perché raccontassero storie che svagassero la sua insonnia». Lo scrittore è un anonimo uomo della notte, è vero: ma ogni storia, insonne, non è mai innocua si nutre del sangue che gli offre il lettore, il suo unico re.
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