Sharon al Rubicone

Mentre dopo mesi di calma la frontiera settentrionale di Israele si è incendiata con un attacco degli hezbollah e una violentissima risposta aerea e di artiglieria israeliana, alle nove di ieri mattina Ariel Sharon ha attraversato il suo Rubicone. Recandosi dal presidente dello Stato per chiedergli di sciogliere il Parlamento, informava il partito Likud da lui fondato trent’anni fa di aver deciso di abbandonarlo al suo destino. Una caricatura coglieva la drammatica situazione mostrando la nave del Likud che andava a picco nel mare mentre Sharon si salvava su un gommone.
La decisione di Sharon di provocare elezioni anticipate ha trasformato nel giro di poche ore la struttura del potere in Israele. Ha messo fine a un sistema partitico ingessato e sotto molto aspetti corrotto che guidava lo Stato di Israele dal 1963. Dall’epoca, cioè, in cui Ben Gurion, abbandonando il partito laburista, aveva fallito nel tentativo di ritornare al governo con un suo partito - Rafi. È questa la sorte che attende Sharon e la lista elettorale con cui affronterà il giudizio del Paese (e alla quale ha dato il nome provvisorio di Ahraiut Leumi, Responsabilità Nazionale). Lo si spera a destra e a sinistra e nei partiti religiosi dove l’antagonismo al primo ministro raggiunge punte di odio. Nell’attesa di conoscere la data esatta dello scioglimento del Parlamento (c’è chi ancora tentava ieri di riunire sessantun deputati per impedirlo offrendo al presidente dello Stato un’alternativa di maggioranza parlamentare) l’intera società israeliana è entrata in fibrillazione.
Perché tanta agitazione in una situazione politica povera di ideologie, vaccinata contro visioni strategiche e messianiche irrealizzabili, libera da pressioni esterne diplomatiche e militari? Perché si ha l’impressione che dopo queste elezioni Israele non sarà mai più come prima.
Per crescita demografica, per tensioni generazionali, per stanchezza dopo cinque anni di lotta terrorista, per delusioni messianiche e per crescita di disparità sociali, enormi forze di protesta e di cambiamento si sono accumulate e sono ora alla ricerca di nuove espressioni politiche. Sharon con la formazione di un nuovo partito non ha soltanto fatto saltare gli equilibri all’interno di tutte le formazioni politiche esistenti. Ha aperto una falla in un sistema che bene o male ha guidato per mezzo secolo il Paese ma non era più in grado di controllarne le spinte interne.
La battaglia elettorale che probabilmente avrà inizio a metà marzo si svilupperà non attorno a programmi (in quarantotto ore il nuovo capo del partito laburista ha già abbandonato il programma annunciato dopo essere stato eletto alla testa del partito in cui si impegnava ad evacuare tutti i territori occupati per giungere ad un accordo coi palestinesi) ma attorno a tre persone, tre partiti e due idee.
Le persone sono Sharon, il sindacalista Amir Peretz e il nuovo capo ancora sconosciuto del Likud. I partiti sono tre e ben definiti: una destra nazionalista e fondamentalista; una sinistra internazionalista laica; un centro capitalista liberal-religioso. Le ideologie sono due: democrazia e teocrazia.
L’ambizione di Sharon è di creare questo centro e riuscire là dove Ben Gurion aveva fallito. La convinzione dei laburisti e dei partiti nazional-religiosi è di impedirgli di ottenere i trenta deputati a lui indispensabili per diventare l’ago della bilancia di ogni futura formazione di governo.

Al momento Sharon ne dispone di quattordici. Se tutti concordano nel pensare che queste elezioni trasformeranno politicamente Israele ben pochi credono in questo momento che ciò avverrà con Sharon ancora alla sua guida.

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