Il campanello d'allarme era stato suonato dalle associazioni dei consumatori: quando si fa la spesa il conto alla cassa sta salendo anche se i prezzi dei prodotti ufficialmente non cambiano. Sembra un gioco di prestigio, invece è una realtà che tocca le tasche di tanta gente. Pacchetti con 9 fazzoletti di carta anziché 10, vasetti di marmellata da 400 grammi anziché 500, tubetti di dentifricio da 75 millilitri anziché 100. Confezioni che si trovano sugli scaffali di ogni supermercato, beni di consumo che tutti i giorni finiscono nelle borse della spesa senza che chi paga il conto faccia troppa attenzione a quel che porta a casa.
Un'occhiata veloce al prezzo, che a memoria è lo stesso dell'ultima volta, e via nel carrello. Ma quel pacchetto o quel barattolo sono più piccoli dell'ultima volta e contengono meno. Minore prodotto allo stesso prezzo di prima significa che si paga di più anche se il prezzo al chilo, indicato obbligatoriamente per i prodotti confezionati, è rimasto invariato.
È così che scattano gli aumenti mascherati. Un fenomeno che scorre sottotraccia come un torrente nelle grotte sotterranee del Carso. Le associazioni dei consumatori parlano apertamente di «pratiche truffaldine» messe in atto dalle industrie del largo consumo. Per il Salvagente, il mensile che è diventato l'avanguardia nella difesa dei compratori, i primi a farne le spese sono stati i britannici dopo il referendum sulla Brexit. La sterlina ha perso valore e le aziende alimentari hanno recuperato i margini aumentando non il prezzo medio ma quello unitario.
I calcoli inglesi
Gli inglesi hanno anche dato un nome alla nuova situazione: l'hanno chiamata «shrinkflation» unendo le parole «shrinkage», cioè contrazione, e «inflation». Un'inflazione fantasma, ovvero l'arte di far pagare di più un prodotto riducendone le dimensioni. Che è anche un problema statistico, perché chi studia l'andamento dei prezzi non registra un aumento dell'inflazione. Ma poiché chi va nei negozi a effettuare i rilievi statistici constata anche un calo nelle quantità acquistate, si pone il problema di valutare la perdita di potere d'acquisto. Nelle sue analisi l'Ufficio per le statistiche nazionali del Regno Unito (Ons) ricalcola il prezzo originale come se si riferisse all'ultima confezione (quella con il peso modificato). Se i due dati sono differenti, significa che la «shrinkflation» ha contribuito all'inflazione.
Secondo l'Ons, dal gennaio 2012 al giugno 2017 sono stati sottoposti a «shrinkflation» 2.500 prodotti, sia alimentari sia per la casa o l'igiene personale. Un rotolo di carta igienica da 240 fogli strappabili ne ha smarriti un po' per strada scendendo a 221 (-10 per cento circa) mentre le barrette di cioccolato sono state assottigliate nel peso o nel volume, i pacchetti di patatine fritte sono dimagrite dell'8-10 per cento, molte lattine di bibite sono scese da 33 a 25 centilitri, i succhi di frutta da un litro a 850 millilitri. Anche i barattoli di gelato hanno fatto la cura dimagrante.
In Italia hanno sollevato un polverone, che non si è ancora del tutto posato, gli aumenti camuffati introdotti dalle compagnie telefoniche mobili quando il ciclo di fatturazione passò da un mese a 4 settimane: in un anno si sarebbero pagati 13 mesi anziché 12. Ma era difficile che un'operazione del genere potesse passare sotto silenzio. E infatti è intervenuta l'Autorità garante della concorrenza e del mercato che ha riportato le cose come prima ordinando anche una pioggia di rimborsi. Se devi fare una ricarica tre giorni prima del solito, te ne accorgi. Ma chi riesce a notare se i piani di morbidezza sono 9 anziché 10?
Capsule e cialde
La casistica, peraltro, è piuttosto ampia e coinvolge le abitudini di consumo e gli stili di vita. I detersivi in polvere per lavapiatti, per esempio, sono quasi scomparsi, soppiantati dalle pastiglie monodose con cui si compiono meno lavaggi. Il caffè macinato è diventato un'anticaglia per fanatici della moka mentre gli scaffali dei supermercati sono monopolizzati da capsule e cialde: a parte i gusti personali che dividono i cultori del caffè della tradizione dagli appassionati della tazzina espresso sempre e dovunque, resta il fatto che un pacchetto di miscela macinata sottovuoto per moka da 250 grammi soltanto in rari casi supera i 5 euro: per acquistarne un chilo bastano 20 euro. Viceversa, una capsula da 5 grammi costa da 30 fino a 40 centesimi, cioè anche 80 euro il chilo. E non tutte le capsule hanno la stessa capacità: la gran parte contiene 5 grammi di caffè oppure 5,5, che può salire a 7 grammi per le varietà «lunghe» (e più costose) ma anche precipitare a 4 se non addirittura a 3 grammi di prodotto per qualche surrogato. Allo scaffale o sui siti di vendita on line ci si limita a rilevare il costo a pezzo, ma raramente si controlla il contenuto. Da 7 a 3 grammi la differenza è più della metà.
Altri fenomeni contribuiscono ad appesantire di nascosto il conto della spesa. L'aumento di persone anziane e che vivono sole ha portato a una maggiore domanda di cibo in dosi più piccole o monoporzione, e i costi dell'imballaggio e del confezionamento gonfiano il prezzo finale. Così pure i piatti pronti che un numero sempre maggiore di supermercati mette sui banchi per chi non ha tempo di cucinare o preferisce un «lunch box» veloce nella pausa pranzo anziché mangiare un panino al bar con i colleghi o portarsi qualcosa da casa. Da qualche anno va di gran moda la verdura fresca già tagliata, lavata, imbustata e pronta da mangiare: anch'essa costa molto più del prodotto comprato sfuso. E anch'essa è soggetta alla «shrinkflation» per cui, di soppiatto, le buste da 200 grammi scendono a 180 o 150 grammi senza che il prezzo ne risenta.
Le aziende hanno i loro argomenti. Le famiglie sono sempre meno numerose e preferiscono acquistare confezioni più piccole d'un tempo. I single chiedono porzioni ristrette. Le tendenze salutistiche impongono di mangiare meno. I venti delle mode gonfiano le vele delle capsule di caffè e ormai anche di tè, tisane, succedanei. E le esigenze del packaging non consentono di abbattere i prezzi in proporzione alle minori quantità. Ma la «shrinkflation» può essere anche una scorciatoia per fare cassa in tempi di crisi.
L'Istat vigila
Se in Gran Bretagna hanno scovato 2.500 referenze modificate, i rilevatori comunali dell'Istat nel quinquennio 2012-2017 hanno conteggiato un cambio di quantità 1.405 volte in undici classi di prodotti, in particolare zucchero, dolciumi, confetture, cioccolato, miele, pane, cereali. Tutti beni di prima necessità. In oltre 700 casi il peso è diminuito. E nell'83 per cento dei casi si è registrato un aumento del costo relativo, e soltanto nel 17 per cento la contrazione della quantità offerta è stata accompagnata dalla riduzione del prezzo.
Secondo Federico Polidoro, responsabile delle statistiche sui prezzi al consumo dell'Istat, il fenomeno «sembra potere avere un impatto trascurabile sulla stima dell'inflazione generale, ma è rilevante per alcune classi di prodotti. E comunque l'Istat lo intercetta ed evita che influenzi la misura dell'inflazione».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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