Claudio Baglioni, 72 anni, il suo obiettivo?
«Quello di sempre: chi viene a un mio concerto deve essere meravigliato».
Come?
«Faccio oltre tre ore di show, siamo in 102 sul palco che è quasi un paese delle meraviglie e mi sembra che si ritorni alla preadolescenza, quando tutto ti stupisce».
Ma non potrebbe fare il «solito» concerto e basta?
«Non sono di quelli che ripetono sempre lo stesso concerto e cambiano solo il nome del tour».
Comunque Claudio Baglioni è sempre più sulla strada di Mick Jagger dei Rolling Stones: fisico asciutto, maratoneta sul palco, voce senza freni e zero voglia di smetterla. Lo dimostra anche con le tre ore abbondantissime di «a TuttoCuore» che l'altra sera ha provato prima del debutto di domani al Centrale del Foro Italico di Roma (sempre qui il 22, 23, 28, 29 e 30, poi Arena di Verona, Palermo e Bari). Baglioni sa scomporre il proprio repertorio e lo destruttura anche stavolta con la regia di Giuliano Peparini che si è inventato un palco a scalinate, la batteria e la chitarra qui, il basso là, gli altri musicisti un po' più a lato e al centro la storia, ossia Claudio Baglioni, il suo racconto e il continuo cambio di scene con ballerini e attori obiettivamente spettacolari (ce n'è persino uno che impersona il pubblico e quindi entra ed esce dalle storie vagando e contorcendosi per il palco). È uno show «demanding», come dice chi se ne intende, e al pubblico non è consentito distarsi troppo perché la trentina di brani (più tre medley) arrivano uno dopo l'altro, la storia è la musica e le parole sono praticamente soltanto quelle dei testi, dall'iniziale E tu come stai fino a Strada facendo e La vita è adesso che chiudono l'ideale sipario. Baglioni parla poco ma in compenso si cambia molto, specialmente le giacche: «Sono il mio giochino personale, cambiarle mi rassicura» spiega fresco come una rosa ben dopo mezzanotte dopo essere sceso dal palco. In realtà il suo giochino è trovare sempre qualcosa di «propulsivo» come questo spettacolo kolossal a metà tra musical e opera pop che esalta (letteralmente) il pubblico più fedele.
Qual è la sua scintilla stavolta?
«Tempo fa si parlava spesso di musica d'evasione. Ecco, visto che nella realtà non possiamo far scendere il numero di cose brutte, possiamo provare ad aumentare quelle belle».
Uno spettacolo difficile da portare negli stadi.
«Può essere che ci torni, ma voglio evitare che il pubblico se lo goda soltanto attraverso i megaschermi da milioni di led. Voglio che sentano e vedano il sudore dei musicisti e gli ultimi led che ho visto sudare sul palco sono stati i Led Zeppelin».
Non pubblica dischi da un po'. I dischi hanno ancora senso?
«I dischi sono un attestato di vita».
Si può dimostrare di essere vivi anche con un brano solo.
«Vorrei evitare di fare solo uno spot, un annuncio. Non voglio diventare come la politica che fa solo spot».
A proposito, la politica litiga sugli sbarchi. Lei con O' Scià a Lampedusa è stato il primo artista europeo a sensibilizzare l'opinione pubblica sul problema immigrazione.
«Se a Lampedusa avessimo messo mani e pensieri 25 o 30 anni fa, forse non saremmo arrivati a questo. Ora sono cavoli per tutti. Bisogna solo trovare una soluzione, senza che questi argomenti diventino ancora una volta materia per scopi elettorali. Altrimenti non se ne viene fuori».
Anche gli elettori sono divisi.
«Diciamo che non possiamo condannare chi emigra ma neanche chi non ne più di questi sbarchi. Dopotutto, come dimostra anche la situazione tra Usa e Messico, i flussi migratori sono una realtà ormai globale».
Siamo talmente in ritardo che O' Scià si fermò dopo anni di lotta per ricevere contributi.
«Ci siamo ritrovati a contenderli con il torneo di bocce. È stata una delusione perché pensavamo di aver costruito qualcosa, eravamo riusciti a mettere insieme le Ong, le istituzioni e tutti gli altri operatori senza che nessuno litigasse».
Tornerà?
«Come tutte le cose anche quella ha avuto un inizio e una fine, ma io mi sono sentito sconfitto».
Perché?
«Perché in tutto questo tempo non è cambiato niente».
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