Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la prima puntata del reportage di Gian Carlo Fusco (1915-1984) sull’impresa dei Mille tratto dal volume Garibaldi in Sicilia (Mursia, pagg. 216, euro 10; a cura di Beppe Benvenuto; in libreria da lunedì).
È la sera del 5 maggio 1860, sabato. Il crepuscolo è limpido. Il cielo è pulito, trasparente, sul mare di Liguria. Gli albereti densi, attorno a Villa Spinola, sembrano tratteggiati a carboncino. Dovunque, un brusio fitto di conversazioni, un parlottio eccitato, a mezza voce. I contadini e i pescatori di Quarto non hanno mai visto tanta folla. Un po’ discosti, silenziosi e intimiditi, dai poggi e dagli scogli, guardano i signori in cilindro e le dame dalle vesti di seta, venuti da Genova per assistere all’avvenimento di cui si discute, pro e contro, da due settimane.
Un garibaldino di undici anni Sono le otto. Si alza un filo di vento. Centinaia di ombre si muovono, vanno e vengono, sostano a gruppetti, nel grande giardino che circonda la villa. Altre si aggirano più giù, fra gli scogli, dove le onde si spengono dolcemente. Centinaia di uomini, di tutte le condizioni e di tutte le età. Guardiamoli più da vicino. Alcuni sono appena ragazzi, altri sono già grigi. Uno, che in questo momento se ne sta accoccolato sotto una palma, è addirittura un bambino. Ha scarponcelli chiodati, un berrettuccio di velluto marrone, pesanti calze di lana, da inverno. Un furiere barbuto, che va attorno con carta e matita, lo interpella: «E tu, chi sei?». «Bepi Marchetti», risponde, con spiccata cadenza veneta. «Quando sei nato?». «Marzo 1849». «Hai appena compiuto 11 anni! Dove sei nato?». «A Chioggia, per servirla». «Vuoi proprio venire con noi?». «Certo, sior!». «Non hai paura?». «Ho solo paura che me lassè in terra, sior!».
Il furiere scuote il capo e tira avanti. Pochi passi più in là interroga un vecchio ossuto sulla cui fronte si arruffa un ciuffo candido. «Come vi chiamate?». «Tommaso Parodi». «Età?». «Sono nato a Genova, in parrocchia San Matteo, nel 1799». «Quasi settant’anni. Ve la sentite?». «Se non me la sentissi, non sarei qui».
Centinaia di uomini. A occhio e croce, un migliaio. Il numero esatto non si sa ancora. Isolati e in drappelli, sono venuti a Quarto da tutte le regioni d’Italia. Non hanno avuto il tempo di far conoscenza, di amalgamarsi. Molti sono arrivati da poche ore soltanto. Se ne stanno raggruppati fra compaesani. Nei gruppi più numerosi si parla il dialetto lombardo. Quello duro dei milanesi, quello aspirato dei bergamaschi, quello dei pavesi, con vaghe inflessioni emiliane. «Dammi una mano, Baignera!». «Perduca, passami la bottiglia!». «Chiedetelo a Fumagalli!».
Vestono nei modi più disparati. Giacche di fustagno, giacconi borghesi orlati di seta, bluse redingote, giubbe alla moda strette in vita. Hanno con sé l’indispensabile, ficcato in sacchetti, bisacce, valigie di panno con su ricamato «Buon viaggio», valigie fini, di cuoio, cassette d’ordinanza dipinte di grigio, «bottini» militari di tela forte, che già servirono a Palestro, a Varese, a Seriate, a San Martino. Vi sono, lì dentro, accuratamente piegate, tante camicie dal colore inconsueto, aggressivo, camicie che madri, sorelle, mogli e fidanzate hanno cucito sospirando. Camicie rosse. Qualcuno, impaziente di sentirsela addosso, se l’è già messa.
Sono le otto e mezzo. La porta del la villa, finalmente, si apre. Il mormorio, fra gli alberi e sulla strada, si ravviva di colpo. La folla ondeggia, si avvicina alla battima del mare, si spinge, lateralmente, fino agli scogli. «Eccolo, è lui!». «Lo vedi? Quello là, vicino al cancello!». «Sta scendendo giù per il viale. Quello che gli dà il braccio, è il cavalier Vecchi». «Guardate. Porta la spada sulla spalla, come un fucile».
Garibaldi passa fra i suoi volontari. Cammina adagio, muovendo la gamba destra con una punta di difficoltà. Ha la camicia rossa sotto il celebre «poncho». I capelli biondo-rossi, già striati di grigio, escono lunghi e folti dal berrettuccio rotondo, ricamato d’argento. Si ferma. Stringe la mano ai veterani del ’49 e del ’39. Saluta qualcuno per nome, accennando un sorriso. Poi cava di tasca, con un gesto brusco, il suo grosso orologio «Roskof», da ferroviere: un cipollone, ma precisissimo. Aggrotta le sopracciglia, acquistando di colpo un’espressione leonina. «Ma che fa Bixio?», dice a mezza voce. «Dovrebbe essere già qui». Qualche ora fa Nino Bixio, con una trentina di giovanotti decisi, è andato a «prelevare» i due vapori che il signor Fauchè, rappresentante genovese della Compagnia Rubattino, ha promesso al Generale, purché, a scanso di responsabilità politiche, se ne simuli la cattura. La partenza è prevista per le nove. Il Piemonte e il Lombardo non si vedono ancora.
Ormai è notte fatta. Nere sul nero, le sagome dei due vapori si profilano finalmente a mezzo miglio dalla costa. Qualche vampa rossiccia, di tanto in tanto, esce dai fumaioli, insieme al fumo invisibile. Lo sciacquio delle «ruote» motrici si avverte vagamente da terra. Comincia subito la spola delle scialuppe. Le operazioni d’imbarco si svolgono senza intoppi. Qualche fazzoletto sventola nell’ombra. Qualche lacrima. Molti abbracci. Garibaldi, dopo essere rimasto una mezz’ora dritto sullo scoglio più grosso, a guardare, s’imbarca a sua volta. Sale sul Piemonte. I bastimenti manovrano. Le «ruote» girano per un momento all’incontrario. Le prore puntano nel buio, in direzione sud-ovest. Dal Lombardo, affidato a Bixio, sale un accenno di coro. Si spegne.
Garibaldi, appoggiato alla murata di tribordo, guarda verso la costa che si allontana rapidamente. «Quanti siamo?» chiede. «Più di mille», risponde una voce nell’ombra. «Quanta gente!» esclama il Generale.
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