Quando divenne Vicario di Pietro, assumendo il nome di Pio XII, Eugenio Pacelli (1876 - 1958) pronunciò la formula di rito «Miserere mei, Deus, secundum (magnam) misericordiam tuam». E di quella formula il Papa si ricordò nel suo testamento redatto nel maggio del 1956, prendendo atto di aver svolto il suo pontificato «in un'epoca così grave» che «ha reso più chiare alla mia mente la mia insufficienza e indegnità».
Uomo di grande acume, di grande prudenza, e di grande umiltà si era trovato ad affrontare uno dei momenti più complessi mai attraversati da un Pontefice. Capo di uno Stato sostanzialmente privo di qualsiasi vera autonomia territoriale, si era trovato circondato dalle potenze dell'Asse. Aveva visto esplodere una guerra la cui violenza verso i civili non era paragonabile a nessuno dei conflitti precedenti. Aveva dovuto prendere atto che i cattolici erano spaccati al loro interno tra fedeltà nazionali e doveri morali, che un'intera fede religiosa, verso cui il cattolicesimo aveva pesanti responsabilità storiche, stava venendo violentemente estirpata dall'Europa attraverso la feroce strage di milioni di ebrei.
Reagì con una politica fatta di costanti, e rischiosi aiuti materiali ai perseguitati dal nazismo e dal fascismo. Reagì anche con una serie di azioni diplomatiche (era un diplomatico di formazione) e di prese di posizione ufficiali in cui però molti hanno visto una timidezza che gli è stata a lungo rimproverata. Una serie di silenzi, soprattutto sul destino degli ebrei, che hanno portato a critiche feroci come quella, molto nota, contenuta nell'opera teatrale Il Vicario del drammaturgo tedesco Rolf Hochhuth (1931-2020) che negli anni '60 scatenò una grandissima discussione sul ruolo di Pio XII. Questo ruolo viene ora ripensato e rivisitato in toto da Andrea Riccardi nel saggio La guerra del silenzio. Pio XII, il nazismo, gli ebrei (Laterza, pagg. 362, euro 25).
Riccardi, uno dei più noti storici della Chiesa cattolica, utilizzando una enorme messe di documenti, non tratteggia solo la figura del Pontefice ma ricostruisce la tela di rapporti interni ed esterni al Vaticano che ha condizionato le scelte di Pio XII. Ed ha il merito di inserire anche le scelte relative alla Shoah in un contesto più ampio.
Compulsando il volume risulta subito evidente che ridurre le strategie comunicative del Vaticano a una sorta di timidezza di Pio XII - che indubbiamente aveva una personalità ben diversa dal volitivo Pio XI - è un atteggiamento quanto meno antistorico.
Il libro mostra innumerevoli esempi di come discorsi, appelli ed encicliche, tra i principali strumenti per trasmettere il pensiero del Pontefice fuori dalla Santa sede c'era la Radio vaticana, siano passati attraverso strettissime forche caudine. Il 10 ottobre 1941 Pio XII incontra Angelo Giuseppe Roncalli, delegato apostolico a Istanbul (e futuro Papa Giovanni XXIII). Tra i due c'era stima e come ricordò poi Roncalli del Papa: «Mi chiese se il suo silenzio circa il contegno del nazismo non è giudicato male».
Il tema del dramma del silenzio attraversava tutti i vertici vaticani e la risposta era sempre complessa. Annotava ancora Roncalli nel 1942: «Oh le pene della Santa sede! Spesso non c'è che il gemito innanzi alle ingiustizie subite. Si potrebbe gridare più forte. Ne verrebbero altri guai». Guai per chi? Per i cattolici che in molta parte d'Europa erano ostaggi dei totalitarismi, anche per gli ebrei che la Santa sede si sforzava di proteggere. Dall'8 settembre del 1943 anche per tutti coloro che si erano rifugiati in Vaticano, un francobollo difeso solo da una striscia bianca tirata nel mezzo di Piazza San Pietro e in cui i tedeschi minacciavano, continuamente, di irrompere. Dal volume esce quindi un quadro molto più variegato dove la scelta non è sempre il silenzio, anzi, si gioca spesso con equilibrismi rischiosissimi per cercare di aiutare chi soffre o favorire la pace.
Qualche esempio. Alla fine del 1939 avviene la prima visita di un Papa al Quirinale sabaudo. Come spiega Riccardi, per Pio XII «era una mossa ardita». Un tentativo di contatto diretto con la monarchia italiana per impedire l'ingresso in guerra del Paese. Ancora il 7 maggio 1940 il Papa incontra i principi di Piemonte, Umberto e Maria José. Ne approfitta per avvisare Maria José, sorella del re Leopoldo del Belgio, che Bruxelles correva «un pericolo grave ed immediato». Una scelta rischiosa e tutt'altro che neutrale rispetto all'invasione tedesca che sarebbe avvenuta due giorni dopo.
Anche nel caso delle persecuzioni antiebraiche gli interventi sono molti e ripetuti. Tutti condotti con lo stile proprio di Pio XII, più da diplomatico accorto, che da voce profetica che corra il rischio di parlare nel deserto. O di essere zittita per sempre. Per rendersene conto basta leggere le pagine dedicate ai moltissimi sforzi della Santa sede per aiutare gli ebrei ungheresi. Oppure alle grandi difficoltà per riuscire a bilanciare la propria politica rispetto ai cattolici tedeschi. Del resto ci furono silenzi ritenuti necessari anche sul totalitarismo comunista. Ne esce un affresco ricco di chiaroscuri e che, fortunatamente, si tiene lontano da qualsiasi atteggiamento giudiziario (assolutorio o colpevolista poco importa) nei confronti di Pio XII.
Un ritratto equilibrato di un Pontefice che, per usare le parole di Riccardi, «ebbe coscienza di un suo dovere che andava al di là della Chiesa cattolica, anche se il suo ministero era rivolto principalmente ad essa». Però «Pio XII e la Chiesa del suo tempo furono testimoni e attori di una vicenda più grande di loro.
Non era la Chiesa del Vaticano II o di Giovanni Paolo II a contatto con una opinione pubblica libera e vivace. Non c'era l'opinione del mondo globale. L'isolamento era la condizione e la grave fragilità della Santa sede». E questo i critici di Pio XII lo dimenticano sempre.
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