Per «tagliare i costi della politica» – l’espressione ha avuto una fortuna pari alla sua improbabilità – occorrerebbe un governo forzuto e determinato, operoso e fortunato del quale l’attuale esecutivo guidato da Romano Prodi non è nemmeno la pallida imitazione. Da Palazzo Chigi partono ormai soltanto segnali di tormentata impotenza, di terminale inerzia: la squadra del Professore può fare molto poco, ma può trovare una compensazione nell’arte consolatoria degli annunci. È a questa categoria che appartiene il disegno di legge che tende a ridurre i costi della politica, un annuncio velleitario che ha già provocato reazioni tali da farne prevedere il fallimento certo.
I buoni propositi del testo di legge – limitati e ambigui – si scontrano con una deriva storica che da decenni impedisce la riduzione degli enti inutili e il contenimento delle spese connesse a certe funzioni pubbliche. Un esempio illuminante. L’Italia minoritaria che, dopo l’istituzione delle Regioni, si appassionò alla campagna per l’eliminazione delle Province, ha assistito alla proliferazione di questi enti, alla moltiplicazione delle burocrazie, delle consulenze, dei contratti di privilegio. È successo, succede. Quando si parla di ridurre enti, prebende e privilegi ci si scontra con una serie di segmenti protetti della società e della politica i cui esponenti gridano: è giusto tagliare, ma si cominci dagli altri.
Cosi, oggi, i rappresentanti delle comunità montane consigliano di cominciare a sfoltire gli eletti delle amministrazioni locali (con annessi compensi) ma i consiglieri ritenuti in soprannumero esortano a colpire con la scure le società municipali e regionali, con troppi amministratori e troppi dirigenti il cui merito sta tutto in una tessera. È un processo circolare che gli italiani più semplici (o più saggi) chiamano scaricabarile.
Che questo governo sia già rassegnato a contentarsi dell’annuncio senza pretendere altro, lo si comprende dal modo in cui è stata zittita una ministra che avrebbe voluto cominciare a usare scure e cesoie limitando il numero dei ministri e dei sottosegretari, che con Prodi ha raggiunto livelli record. Ma come si permette? E poi come si tiene insieme la (dis)Unione se si taglia il numero delle poltrone? A ciascuno il suo e paghi il contribuente. Questo esordio chiarisce quali siano le reali intenzioni di un governo che ha occupato tutte le caselle del governo e del sottogoverno per donarle ai suoi rissosi sostenitori.
Le marginali buone intenzioni cozzano contro una sedimentazione socio-economica di radicata efficacia. Per realizzare i suoi circoscritti e cauti interventi risparmiosi il governo dovrebbe andare contro la sua stessa base. Negli ultimi decenni si è stratificata, nei posti dello spreco, una parte del ceto politico e una frazione della società civile che dipendono, e sono funzionali, dai partiti che si riconoscono e si collocano nel centrosinistra. Le formazioni più consistenti del centrodestra (Fi e An) o sono nuove o sono rimaste per decenni fuori dell’area di potere, sicché non hanno potuto generare una costellazione di valvassori e valvassini insediati nel feudo dei pubblici pascoli. Anche i sindacati hanno avuto i loro spazi (poste, istruzione, ferrovie, pubblico impiego) e non sarà facile limitarne pretese e spese.
Per realizzare il suo annuncio, il centrosinistra dovrebbe andare contro la sua base e il suo costoso zoccolo duro, quello che ha esaltato la funzione delle circoscrizioni comunali, delle comunità varie, delle associazioni fumose ma onerose.
Ecco perché il disegno di legge sui costi della politica avrà la stessa sorte delle liberalizzazioni: un processo di continui arretramenti e revisioni, fino al fallimento nel silenzio.
Salvatore Scarpino
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