Sorpresa, nessuno parla più di Irak

Da quando le cose a Bagdad e dintorni vanno meglio i candidati preferiscono non insistere sul ritiro, prima giudicato urgentissimo

Ritirarsi dall’Irak, il più velocemente possibile, questo era lo slogan condiviso fino a qualche mese fa da tutti gli esponenti del partito democratico e persino di buona parte dei repubblicani. L’Irak era al centro dell’agenda elettorale, c’era una gara solo a promettere un ritiro più rapido rispetto ai concorrenti. Nessuno a Washington avrebbe scommesso un penny sulla possibilità di ridurre la violenza e individuare un percorso per riportare il Paese alla normalità.
Oggi però il quadro è cambiato, profondamente. Qualcuno, in campo repubblicano, si permette addirittura di parlare di «vittoria» a portata di mano, ma di sicuro la situazione in Irak è davvero radicalmente mutata. In meglio. E l’opinione pubblica e persino i grandi media tradizionalmente avversi all’impegno militare in Irak ne sono consci. Di ritiro «a prescindere» delle truppe statunitensi non si parla più. Sì, si vuole ridurre gradualmente la presenza militare statunitense nel Paese, ma senza troppa fretta, perché la nuova strategia militare avviata dal presidente Bush sta funzionando. E se l’Irak era quasi un tema tabù, specie per i repubblicani, ora il successo potrebbe avere moltissimi padri. Purché duri.
La prudenza è opportuna, tuttavia i dati positivi appaiono più convincenti e consolidati mese dopo mese. Il rapporto presentato a dicembre dal Pentagono al Congresso lo illustra compiutamente, mentre cresce l’attesa per quanto il comandante in Irak, il generale David Petraeus dirà tra qualche settimana a proposito dei progressi ottenuti. Il 2007 è stato un anno sanguinoso, costato la vita ad almeno 16mila iracheni e a un migliaio di soldati americani, però da quando lo schieramento degli oltre 30mila soldati americani addizionali è stato completato, a giugno, ed è stata attuata la nuova strategia di Petraeus, la tendenza al miglioramento è stata evidente. Cala la violenza, il numero degli attacchi, gli scontri settari, Al Qaida se non sconfitta è in difficoltà (e questo spiega perché molti guerriglieri ora puntino sull’Afghanistan). In dicembre le truppe Usa hanno perso una dozzina di soldati, un numero così basso non si vedeva da anni e i civili iracheni deceduti sono stati 480, rispetto ai 2.000 di dicembre 2006 o ai 900 di due mesi fa. Il governo iracheno ha assunto la gestione di 9 delle 18 province e le altre 9 seguiranno nel 2008. Le forze armate e di sicurezza irachene contano oltre 490mila uomini e continuano a crescere. Sono 70mila i sunniti arruolati tra le forze locali di sicurezza. Gli indicatori economici sono tutti positivi, il Pil è cresciuto del 6,3% nel 2007, l’inflazione dimezzata, il bilancio 2008 prevede 9 miliardi di dollari per la sicurezza, ma 13 per gli investimenti. Sia a pure a fatica, l’economia riparte e la qualità della vita migliora.


Naturalmente c’è ancora moltissimo da fare, ma, come ha detto il generale Raymond Odierno, il vice di Petraeus, c’è una «finestra di opportunità» che, se sfruttata, può spingere definitivamente l’Irak sulla strada giusta. E neanche un Congresso già in mano democratica si azzarda a impallinare questo nuovo corso.

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