In ogni numero della Review of Reviews il direttore W.T. Stead pubblica una rapida ed originale biografia di quella persona la quale, più di ogni altra durante il mese, ha meritato d'attrarre su di sé l'attenzione pubblica. Nel mese di luglio la persona per così dire biografata è, letteralmente: The United States of Europe.
La scelta dice che nella mente dello Stead gli Stati Uniti d'Europa non sono più solo una speranza lontana, sogno dei pensatori e degli entusiasti, ma un fatto reale, già esistente e che ogni giorno diventa sempre più palese. Quando le sei grandi potenze europee inviarono le loro flotte nelle acque di Creta e le navi del concerto bombardarono il campo candioto per impedire le ostilità ogni giorno rinascenti, un grido di indignazione e di orrore si innalzò dal petto di tutti i filelleni europei; i liberali inglesi, capitanati dal venerando Gladstone, firmarono un indirizzo vibrato di protesta; solo lo Stead osò, lui liberale, affermare che quello era uno dei giorni più belli della storia contemporanea; perché segnava la nascita degli Stati Uniti d'Europa. Il processo è stato lungo. Le grandi creazioni del tempo richiedono lunghi secoli di preparazione. Come Ibsen ha detto, la natura non è economica. Nel preparare i fondamenti della novella Europa essa operò nella stessa guisa dei barbari, i quali si servirono come di pietre da fabbrica delle statue di Prassitele ed utilizzarono le sculture dei templi pagani nella costruzione delle loro case.
Nelle pagine della sua Politica, Treitschke scrisse sarcasmi feroci contro le teorie di coloro i quali pretendevano che dopo il 1871 Baviera e Sassonia, Baden e Württemberg fossero ancora veri stati: vero stato essendo ai suoi occhi soltanto quello a cui spetta il diritto della pace e della guerra. L'appellativo «signore della guerra», che davasi all'imperatore tedesco, significava appunto l'attributo sovrano che egli solo possedeva, a differenza di tutti gli altri principi confederati tedeschi, ed a somiglianza degli altri sovrani o presidenti di stati indipendenti, di dichiarare la guerra e di firmare la pace. Dal quale attributo discendono tutte le altre qualità dello stato sovrano e perfetto: di potere, esso solo, esigere ubbidienza assoluta dai suoi cittadini, far leve e riscuotere tributi, impartire giustizia, senza essere soggetto ad alcuna corte giudiziaria posta al disopra di sé; far leggi obbligatorie per tutti gli enti morali e le persone fisiche viventi entro la cerchia del territorio nazionale; negare la sovranità indipendente di qualsiasi corpo, come la chiesa, vivente entro il territorio suo; stipular trattati con altri stati sovrani e denunciarli.
Questo, in brevi parole, il dogma della sovranità dello stato, indipendente dagli altri stati, unità perfetta in se stesso, che si ammira nei trattati scolastici e si custodisce gelosamente, come la gemma più preziosa del patrimonio nazionale. Forse appunto perché esso è riuscito a penetrare, quasi inconsapevolmente, nel patrimonio spirituale degli uomini d'Europa, urge dimostrare che esso è in contrasto insanabile con l'idea della Società delle Nazioni. Poiché, se fu necessario sconfiggere il nemico, se assai ha giovato che l'augurio fatto in altra mia lettera affinché venisse cacciata la dinastia tedesca siasi così rapidamente avverato, sovra ogni altra cosa è necessario distruggere le idee da cui la guerra è stata originata. Tra le quali idee feconde di male, se condotte alle loro estreme conseguenze, quella del dogma della sovranità assoluta e perfetta in se stessa è massimamente malefica.
In un popolo equilibrato e non fantasioso, come l'italiano, quel dogma può restringere forse la sua malefica virtù nel persuadere qualche cultore di diritto pubblico a compiere una costruzione elegante che sarà imparata con stupefazione dagli studenti e battuta in breccia dallo estensore di una ancor più ardita ed elegante memoria accademica; potrà dare lo spunto, in occasioni solenni, a formali rivendicazioni della dignità nazionale alla tribuna parlamentare. Ma qui non si ferma la virtù venefica del dogma della sovranità presso i popoli, che sovrani filosofi politici ed economisti hanno fatto persuasi della loro missione divina e rigeneratrice.
Per mille segni manifestatisi la verità che i popoli sono gli uni dagli altri dipendenti, che essi non sono sovrani assoluti ed arbitri, senza limite, delle proprie sorti, che essi non possono far
prevalere la loro volontà senza riguardo alla volontà degli altri. Alla verità dell'idea nazionale «noi apparteniamo a noi stessi» bisogna accompagnare la verità della comunanza delle nazioni: «noi apparteniamo anche agli altri».
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