Tra specchi rotti e morti in piscina spunta pure l’arte

Venezia
Un piccolo quadro dell’artista del Benin Georges Adéagbo suscita tanta nostalgia: rappresenta le lettere della parola «Italia» smantellate dalla facciata di quello che fu il nostro Padiglione. Ora si chiama Palazzo delle Esposizioni della Biennale.
Certo a me, che ho curato un padiglione italiano, che amo profondamente l’arte italiana, una stretta al cuore è venuta, entrando ai Giardini e non vedendo più quella parola sul fronte. Mi consolo un po’ vedendo sulla facciata un bel lavoro di Baldessari: un grande orizzonte che lascia ben sperare. La soppressione del Padiglione italiano per lunghi anni e poi il suo spostamento sembrano il segno di un’Italia che pareva aver accettato un destino di marginalità. Mi ripeto che mai più dovrà accadere un simile atto di masochismo culturale e infatti il Padiglione Italia è risorto all’Arsenale. Detto questo bisogna convenire che Daniel Birnbaum ha saputo darci una gran bella mostra. Anche gli artisti italiani sono benissimo rappresentati al suo interno, anzi a Massimo Bartolini il direttore ha affidato uno dei tre interventi cardine del nuovo corso: la realizzazione di una sala multimediale. Mentre Tobias Rehberger ha realizzato il bar e Rirkrit Tiravanija il bookshop. Una Biennale che si muove in un’ottica di attività permanente deve dotarsi di spazi dedicati ai visitatori. L’Italia dovrebbe tornare a essere il Paese dove gli artisti disegnano gli spazi per la vita, come l’arte italiana, nei secoli, ha insegnato al mondo. Dunque la pattuglia italiana si fa onore anche alla mostra internazionale con Roberto Cuoghi; con Grazia Toderi e la giovane Lara Favaretto ai Giardini delle Vergini: una cupa palude attraversata da una lamina d’oro. Affollatissima la performance di Michelangelo Pistoletto con tifo e applausi per ogni specchio spaccato. Ma anche molta pittura: da Simone Berti a Pietro Roccasalva che si ispira al grande Gino De Dominicis che, poche sale più in là, si materializza in un grande quadro blu. E pittura non solo italiana con Anju Dodija, Susan Hefun, Toba Kheodori, Pavel Pepperstein presente.
Come già l’ultima documenta anche questa Biennale risale alle radici dell’avanguardia con il gruppo giapponese Gutai, ma queste radici sono anche pittoriche, come attesta il grande quadro del ’61 di Kazuo Shiraga. Un inizio simbolico è costituito dalle istruzioni per dipingere di Yoko Ono considerata da molti la prima opera di arte concettuale. Un filo conduttore è costituito dai bastoni colorati di André Cadere, prematuramente scomparso e ora riscoperto. Gli artisti infatti si mescolano nel percorso e alcuni ricompaiono all’Arsenale. L’italo argentino Tomas Saraceno, che ha l’onore della sala centrale, ci porta all’interno di un’enorme tela di ragno. L’America, che i suoi artisti li ha sempre difesi, a cominciare dalla Pop Art alla Biennale del ’64, si presenta con una grande antologica di uno dei suoi massimi protagonisti: Bruce Nauman.
Alla luce dei fatti superflue appaiono alcune contrapposizioni create dalla stampa prima di vedere l’esposizione tra il padiglione italiano di «pittura figurativa» e il resto del mondo «avanguardistico». C’è pittura persino tra le installazioni del padiglione dei paesi nordici, curato dagli artisti Elmgreen & Dragset e allestito come una casa in vendita: c’è anche una piscina con relativo annegato dentro, stile Viale del tramonto. Chi sa se i due si sono ricordati che un affogato simile era stato presentato da Maurizio Cattelan a Muenster nel ’97.

Significativo il titolo: Morte di un collezionista. Mentre nel mondo si aprono nuove Biennali, la più vecchia e gloriosa dimostra di sapersi rinnovare e tra le polemiche di sempre, promette di essere un successo: e sarà un successo del nostro Paese.

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