Settembre 1953. Nascosti dietro la tenda nell'atrio di un cinema di Roma, Alberto Sordi e Federico Fellini seguono trepidanti la prima proiezione de I vitelloni. Sordi protesta con l'amico Federico: il suo nome è stato tolto dal manifesto del film perché, dopo un paio di flop provocati dalla sua comicità troppo aggressiva, i produttori temono che tenga lontano il pubblico. Ma ecco il miracolo: alla scena di quella che diverrà la più famosa pernacchia del cinema italiano («Lavoratori! - sfotte Alberto, all'indirizzo di alcuni operai sul ciglio della strada - Lavoratori della malta!») la sala esplode in un boato di risa. La leggenda può cominciare.
Questo il momento-chiave girato ieri a Roma, sul set di Alberto: il tv movie che Rai Uno e Oceans Productions preparano per la primavera del 2020, centenario della nascita del grande attore. «Non solo un mito del nostro cinema - riassume il direttore di Rai Fiction, Tinni Andreatta - ma il simbolo stesso dell'italiano medio. Cinico e sbruffone, ma pieno di slanci del cuore. Codardo nel quotidiano, ma eroico quand'è necessario». Nell'ormai lunga serie di bio-pic che, con esiti alterni, la Rai ha dedicato ai grandi del nostro spettacolo - Domenico Modugno, Walter Chiari, Nino Manfredi, Mia Martini... - mancava il più difficile di tutti. E non è un caso che Alberto racconti solo gli anni giovanili di Sordi: dal 1936, quando vince il provino della MGM per doppiare Oliver Hardy, al 1954, quando duella con gli iconici spaghetti di Un americano a Roma («Maccarone: tu m'hai provocato, e io ti distruggo!»). Si evita così il rischio di confrontarsi col ricordo vivissimo che tutti ancora hanno del Sordi maturo e, contemporaneamente «si possono raccontare - spiega il regista, Luca Manfredi - episodi degli inizi e del privato che il grande pubblico ignora. La cacciata dai Filodrammatici di Milano, quando un'insegnate profetizzò che non sarebbe mai diventato un attore; i nove anni d'amore con l'attrice Andreina Pagnani (la signora Maigret dei telefilm con Gino Cervi) più grande di lui di 15; la perdita della madre Maria, fisicamente identica e alla quale era legatissimo».
Naturalmente un'impresa simile non poteva prescindere da un protagonista adeguato. «Ma come rifare Alberto Sordi? Beh: il mio faccione è identico al suo - commenta Edoardo Pesce -. E in me sento la sua stessa romanità». Anche se maschera sornione l'improbo compito, l'attore quarantenne lanciato dalla serie Romanzo criminale e premiato col David all'attore non protagonista per Dogman, si proclama «onorato e terrorizzato. Eviterò di imitarlo, o di scadere nella macchietta. Indosserò la sua maschera come si indossano quelle della Commedia dell'Arte: come un napoletano metterebbe la maschera di Pulcinella. E che Dio me la mandi buona». Lo preoccupa la voce, inconfondibile, dell'originale: «Lui era un basso, io al massimo un baritono», ma dichiara risoluto di «non averlo studiato, di non aver nemmeno rivisto i suoi film. Sordi ce l'ho dentro come ce l'abbiamo tutti. E questa cosa io preferisco affrontarla di pancia, senza troppi tecnicismi».
Non l'ha conosciuto personalmente; per questo, alla domanda che spesso si pone il pubblico, cioè «nella realtà Sordi era identico ai suoi personaggi?», risponde Luca Manfredi, figlio di Nino: «Per me Alberto era la somma dei suoi ruoli. Vizi e virtù compresi. Al contrario di mio padre, che si nascondeva dietro il personaggio, Alberto rifaceva sé stesso». Di parere diametralmente opposto il produttore, Sergio Giusti: «Io l'ho frequentato per trent'anni. E posso testimoniarlo: era la persona più corretta, leale e generosa che esista. Ha donato cifre enormi in beneficenza. E da vero cristiano: senza mai dirlo. Se ritraeva i difetti degli italiani era per aiutarli, ridendoci su, a correggerli».
Girato fra Roma, Tivoli e Santa Maria di Galeria e patrocinato dalle tre fondazioni benefiche che portano il nome di Sordi, Alberto è affollato di nomi celebri, ma rifatti da giovani attori: Fellini è Alberto Paradossi, Giulietta Masina è Martina Galletta, Aldo Fabrizi è Lillo, Steno è Massimo De Santis. La speranza di tutti? «Che questo film appassioni e diverta anche solo la milionesima parte di quanto ci ha divertito lui», sintetizza Pesce.
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