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Altro che traditrice e "annientatrice di uomini". Quando Gorgia cantò l'elogio di Elena di Troia

La moglie di Menelao non è colpevole perché fu persuasa dal potere della parola

«Tutti i tuoi tormenti, tutti i tuoi dolori sono figli della tua bellezza, e somigliano sempre, di nuovo, alla loro splendida madre». Queste parole dell'Elena Egizia di Hugo von Hofmannsthal (1874-1929) condensano l'irresistibile fascino di Elena, l'archetipo dell'eros e della bellezza nella cultura occidentale. Elena, la donna «che fece ardere le mille di torri di Ilio», come scriveva Christopher Marlowe nel Faust, però, è anche e sempre, al contempo, l'immagine della colpa e dei pericoli della femminilità: moglie fedifraga di Menelao, amante di Paride, sposa di molti mariti, causa della guerra di Troia e della morte di moltissimi uomini, Elena è quasi sempre condannata non solo in Grecia, dove Eschilo la definiva «annientatrice di navi, di uomini, di città», o dove la stessa Elena, nell'Iliade, si descriveva come «una cagna odiosa e tremenda» ma anche nelle epoche successive. Virgilio, ad esempio, racconta il suo «odioso volto», Joris-Karl Huysmans ne sottolineerà «la bellezza maledetta e irresponsabile che avvelena tutto quello che l'avvicina e che la vede», mentre Marina Cvetaeva la descriverà «bigama, predatrice, spiffero di morte».

Vittima e carnefice a causa della sua involontaria dote, la bellezza, Elena, però, ha anche i suoi difensori: come Euripide, che nel 412 a.C., ispirandosi a Stesicoro, racconterà che la vera Elena era rimasta in Egitto, mentre al posto suo, a Troia, sarebbe andato un fantasma; o come Gorgia, che nell'Encomio di Elena (ora ripubblicato dalla Vita Felice, pagg. 64, euro 7; a cura di Riccardo Pezzano: testo greco a fronte), orazione simbolo della forza persuasiva peculiare alla sofistica il movimento filosofico e culturale che si affermò ad Atene nel V secolo senza mirare alla determinazione di valori etici stabili, ma solo a uno scopo pratico ed edonistico creava quella che, almeno dal punto di vista retorico, è l'apologia di Elena per eccellenza.

Nel suo Encomio, Gorgia, considerato non a caso il creatore dell'arte retorica, scriveva infatti che Elena non è da condannare perché, quando fuggì da Sparta, fu spinta da un principio superiore, come il destino o le decisioni degli dèi, oppure rapita con la forza, o persuasa dal potere della parola, o fu, semplicemente, vinta dall'amore per Paride. Tra tutte le ragioni che adduce per liberare «una donna dall'infamia e eliminare l'ingiustizia di un biasimo», la più fascinosa, anche per come la intende lo stesso Gorgia e come ricorda Pezzano, è senza dubbio la persuasione del lògos (la parola), «un grande sovrano» capace di produrre «incantate magie»: la parola, infatti, «con un corpo piccolissimo e invisibile, può far cessare la paura, portar via la tristezza, suscitare gioia e accrescere la pietà», e la sua potenza sull'anima è paragonabile all'efficacia dei farmaci sul corpo.

La seduzione, o forse addirittura la magia del lògos, insomma, può ogni cosa, proprio come la bellezza della sua Elena innocente, che, come scriverà molti anni più tardi Louis Aragon, sa essere allo stesso tempo «pace profonda e profondo delirio».

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