C'è qualcosa di surreale nella bagarre avvenuta nei giorni scorsi intorno alla censura ipotetica di un rapper famoso che ci teneva a dire la sua contro l'omofobia dai microfoni della tv di Stato... I particolari sono noti e non sarebbe il caso di tornarci su se non ci fosse la concomitante riproposta nelle librerie di un saggio che uno scrittore belga, Pol Vandromme, scrisse oltre mezzo secolo fa sullo scrittore più maledetto del XX secolo, Céline. Pubblicato allora in Francia, e poi a ruota in Italia, riproposto all'inizio degli anni Duemila ancora in Francia con una nuova introduzione dell'autore in cui si dava conto di come in quell'arco di tempo la grandezza letteraria di quello scrittore si fosse comunque imposta, il libro viene ora ripubblicato in Italia (Louis-Ferdinand Céline, pagg. 168, euro 16, traduzione di Alfredo Cattabiani, 20 illustrazioni, Italia storica editore) dopo che né il centenario della nascita (2004), né il cinquantenario della morte (2011) siano stati in grado di far riemergere dall'oblio censorio i tre pamphlet antisemiti che costarono a Céline la messa al bando nel secondo dopoguerra.
Intorno alla loro pubblicazione, nella fattispecie, Bagatelle per un massacro, La bella rogna, La scuola dei cadaveri, continua a gravare una sorta di ipocrisia pelosa che conviene esaminare. In patria fu lo stesso Céline, finché visse, e poi, a lungo, la sua vedova, a opporsi a ogni nuova edizione, per motivi facilmente comprensibili: gli erano costati la prigione e l'indegnità nazionale. Nel Canada francofono l'interdetto è stato però aggirato nel 2011 per la diversa normativa, 50 anni, sulla durata del diritto d'autore. In Italia, Guanda aveva cercato di rompere il divieto pubblicando i primi due titoli all'inizio degli anni Ottanta, ma poi aveva dovuto fare marcia indietro. Alla fine degli anni Novanta, un piccolo editore, le Edizioni Soleil, ha fatto lo stesso per il terzo. Nel 2018, Lucette Almanzor-Céline si era finalmente decisa a togliere il suo divieto alla ripubblicazione dei testi in questione, purché con un apparato critico, ma è stata la stessa casa editrice Gallimard a bloccare l'operazione. Eppure è difficile non essere d'accordo con Vandromme nell'osservare che il migliaio di pagine, all'incirca, che li compongono sono un corpus difficilmente cancellabile con la sola spugna del politicamente corretto.
Il cuore della questione è tutto qui, semplicemente. Chi censura chi? E perché? Se si parte dall'idea che la libertà di parola, nonché d'opinione, è sacra, la questione dovrebbe essere già chiusa in partenza. Se invece la sua sacralità coincide con il fare parte dell'opinione dominante, stiamo mettendo una foglia di fico censoria su chi la pensa diversamente, esercitiamo una vocazione totalitaria e non libertaria, chiamiamo con un altro nome quella che di fatto è una dittatura del pensiero unico: Il nostro...
Nel caso di uno scrittore la cosa assume aspetti ancora più tragici nella sua contraddittorietà. Lo scrittore vive di parole, costruisce intorno a esse e con esse una propria lingua, un proprio stile, la sua musica. Negargliele, volergliene imporre altre, vuol dire condannarlo intellettualmente a morte. Come osserva Vandromme, «mille pagine di malintesi voluti apposta, di parole abusive, di controsensi, di bellezze sparse e di intuizioni folgoranti» vengono condannate a essere «perdute». Potremmo anche aggiungere mille pagine di odio, ma il concetto non cambierebbe, oppure mille pagine artisticamente brutte, mediocri, insomma, e magari fallite, e anche qui non ci si sposterebbe di una virgola: è suo diritto scriverle, ed è nostro dovere permettergli di farlo. Se non è così, ci stiamo prendendo in giro.
Togliere da uno scrittore quello che non ci piace è naturalmente un esercizio legittimo, è una nostra scelta. Imporglielo però è un sopruso, una prevaricazione, ha a che fare con la rieducazione intellettuale, pratica che va bene per le dittature, non per le democrazie... Non ci compete, non è un nostro compito. Allo stesso modo, caricarlo di un giudizio morale significa confondere i piani, trasformarlo in farabutto quando esprime opinioni che non ci piacciono, in persona per bene quando la pensa come noi. Ora, la categoria del farabutto in arte non solo non vuol dire nulla, ma non spiega nulla. Come osserva Vandromme: «Se la letteratura non è faccenda di trasformisti e censori, come spiegare che un artista di genio ha coabitato stabilmente con un poveraccio? Chi si pone questi interrogativi gira invano intorno all'irrisolvibile enigma. Non si ha che da convenire, con Proust e contro Sainte-Beuve, che una grande opera è sempre superiore all'individuo che l'ha scritta, quel miserabile mucchietto di segreti».
C'è di più. La vera letteratura non ha a che fare con il perbenismo e con i buoni sentimenti.
L'indignazione sempre dalla parte della ragione, mai dalla parte del torto, produce effetti stomachevoli, crea la figura retorica dell'indignato speciale che, per restare in Italia, è oramai diventata una professione. Specie televisiva.
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