Se c'è un principio su cui si fonda una tragedia è che non c'è nessuno, tra i personaggi che compiono il dramma, che sia escluso da un grado, maggiore o minore che sia, di colpevolezza. La colpa di cui ciascuno porta il peso, sia consapevole o meno, è esattamente ciò che mette in gioco la necessità dello spettacolo. La rappresentazione, in età classica, in una certa misura era la messa in scena per mezzo di una metafora, o di un complesso sistema di significazione, della vita. Potremmo dire che ogni personaggio era emblema (e sintomo) di una particolare situazione da cui ricavare una morale. Ora, cosa c'è di più simile a una tragedia, di una rappresentazione scenica, che il dramma di una famiglia?
Angelo Mellone, col suo ultimo romanzo, Nelle migliori famiglie (Mondadori, pagg. 288, euro 18), se ha preso come modello la tragedia classica, ha fatto pure in modo che la sua messa in scena fosse deprivata di qualsiasi simbolismo. Come a dire: depauperata la potenza simbolica del mito, la vita è ridotta a essere nient'altro che se stessa. Ma questo cosa significa esattamente? Che la vita, e dico proprio il modo stesso che abbiamo di porci nei confronti dell'esistenza, avendo perduto la sua carica numinosa, desacralizzandosi, non ha più nulla da nascondere. È, nella stessa misura del suo perpetuo esistere. Se il modello classico è quello della tragedia, allora, il faro moderno è quello del romanzo borghese; del romanzo, per così dire, tradizionale. È una scelta di campo consapevole, quella di Mellone, e profondissima, perché ha compreso che se perduta è la possibilità di una messa in scena che possa restituire il senso del sacro della vita, allo stesso tempo sa che la vita stessa è comunque una recita in cui ognuno fa di tutto per essere il personaggio di se stesso.
Recita, messa in scena, dramma, tragedia. È chiaro che quello che si vuole evocare non è altro che un teatro, un palcoscenico. Bene. E qual è il palcoscenico scelto da Mellone per questo romanzo? La sala d'aspetto di un pronto soccorso. Non un pronto soccorso qualsiasi, ma quello di una delle località di montagna più dichiaratamente borghesi d'Italia: Cortina d'Ampezzo. E non ha scelto un giorno qualsiasi per accendere i suoi riflettori quando il sipario si apre, ma la sera della vigilia di Natale dove i riflettori diventano le lucine colorate che addobbano la festa. In quella sala d'aspetto c'è un padre, Piero Cometti, che attende l'esito dell'operazione di un figlio portato d'urgenza in ospedale per un incidente in montagna. Il primo a sapere che la vita è una recita è proprio Piero, chirurgo estetico che ha teorizzato la possibilità di una democratizzazione della bellezza. Una chirurgia estetica che non ha come scopo quello di trasformare il mondo intero in una sola faccia, quella delle centinaia di star del cinema e della televisione con l'identica fisionomia felina, ma per mettere a disposizione di tutti la bellezza, perché è il corpo, dice, la nuova anima. Piero non è solo il protagonista del dramma, insomma, ma ne è in qualche misura il teorico, o quello a cui Mellone affida la capacità di dare un'impalcatura filosofica a uno stato dell'essere. Perché, e ci sembra questo il nodo al fondo del romanzo, se tutto si esteriorizza, se non c'è più nulla che sta al fondo delle cose, allora è proprio in superficie che occorre trovare una profondità, finanche una forma di mistero.
In quella sala d'aspetto, allora, accade tutta la vita. Piero non attende solo l'esito di un'operazione, ma è pure colui che vede sfilare, ora dopo ora, tutti gli altri personaggi del dramma. Una volta Elisabetta, la ex moglie, un'altra Sara, la figlia, e poi ancora Filippo, l'amico di quando erano ragazzi che però adesso è diventato quello che trama per far prendere un posto di potere a Elisabetta, e poi ancora Pancaldi, il medico a cui è affidata la vita del figlio Denis, che in quanto assente, o presente tragicamente, rappresenta la necessità materica, addirittura oggettuale, che fa muovere i fili stessi di una vita che se finge lo fa per trovare nonostante tutto il modo di essere. Tutti personaggi con una loro fisionomia e una loro storia che si intreccia perfettamente con quella di Piero. Ma di una cosa sono sicuro. Che Mellone, per quanto abbia un indiscutibile talento a costruire trame, a pensare architetture che sono solidissime, è su Piero che ha concentrato la sua vera attenzione. Chi lo raggiunge in quella sala d'aspetto non è qualcuno che porta qualcosa di sé a lui, ma sempre una sorta di emissario che, entrando in scena, svela allo stesso Piero una parte di lui. Potremmo dire che la sala d'aspetto somiglia allo studio di uno psicanalista, ma a fattori invertiti. Non è Piero lo strizzacervelli che fa emergere le rimozioni a ognuno, ma sono gli altri il mezzo che permette a Piero di rivelarsi.
A Piero non manca niente la carriera, la famiglia, i soldi, il benessere. A Piero manca tutto, se è vero che ogni elemento positivo della vita nasconde sempre anche il suo contrario.
Mellone, quindi, non ha individuato solamente quale sia la vera tragedia contemporanea, ma ha voluto raccontare che non c'è un palcoscenico più reale della famiglia per dimostrare che, malgrado ogni cosa sia emersa, nonostante la vera tragedia sia la stessa esteriorità, finché esisterà l'uomo, saranno sempre il bene e il male che in esso convivono la vera questione su cui ragionare, con la quale combattere.
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