Annalena Benini e le più vere parole d'autore

Fate parlare di sé uno scrittore abbastanza a lungo e scoprirete molte cose, a cominciare da quanto è stretto il legame che lo unisce al mestiere o la sua statura intellettuale

Annalena Benini e le più vere parole d'autore

Fate parlare di sé uno scrittore abbastanza a lungo e scoprirete molte cose, a cominciare da quanto è stretto il legame che lo unisce al mestiere o la sua statura intellettuale. Se poi l'argomento dell'intervista è il rapporto fra vita e letteratura, come nel volume edito da Rizzoli di Annalena Benini, La scrittura o la vita (pagg. 247, euro 20), allora i nodi vengono al pettine abbastanza facilmente: il novanta per cento delle cose che raccontano gli scrittori a questo proposito sono rubricabili come banalità, piattitudini, truismi.

Ribadito che non basta essere pubblicati da Mondadori o vincere il premio Strega per guadagnarsi il diritto di spacciare ovvietà per massime sapienziali, né quello di trasformare in avventure circonfuse di mistero vicende personali comuni, non resta che rifugiarsi fra le parole dei pochi autori degni di appartenere alla corporazione; quel che resta dopo la scrematura è interessante e rende il volume della Benini una lettura piacevole. Si respira quando gli scrittori rimuovono l'aura magica o pseudoscientifica che circonda il loro lavoro: è ciò che fa Edoardo Albinati quando esclama: «Dello stato dell'arte non mi importa nulla». O Alessandro Piperno quando spiega: «Se dovessi dare un consiglio a un giovane scrittore gli direi: trova un contegno». Atmosfera limpida attorno alla poetessa Patrizia Cavalli: «Sei totalmente senz'anima?», «Sì, io ho solo i sensi, e le parole». Ci si diverte nel vedere Walter Siti accogliere la Benini in vestaglia pesantissima ed enormi pantofole di spugna: «Sono abituato a buttare i soldi, come tutti quelli che non li hanno mai avuti da giovani». Per vedere nei Vangeli un manuale di scrittura creativa serviva l'intelligenza di Sandro Veronesi: «Come scrittore, quale maestro dovrei prendermi se non Marco, che con il racconto doveva far credere i romani? Che doveva misurare quello a cui si poteva credere e tagliare quello a cui era impossibile credere?».

Ma è dedicato a Michele Mari il capitolo più brillante; passeggiando sotto la galleria di libri ideata dallo scrittore, è facile misurare quanto il quadro familiare abbia influito sullo stile. «Non fare come loro, perché loro sono tutti uguali», gli diceva il padre. «Loro», naturalmente, erano i compagni di scuola. Dalla madre, intanto, ereditava «la convinzione che il buonumore fosse segno di scarsa intelligenza». Conseguenze letterarie? «Uno scrittore mio coetaneo disse: non mi interessa interagire con Petrarca e Tasso, la mia intertestualità è con i Doors. Io sono stato sempre molto più imparruccato».

Troppo cortese ed empatica per essere smascherante, la Benini dimentica di chiedere perché mai, in questo caso, Mari abbia scritto un libro dedicato ai Pink Floyd. Quanto agli altri intervistati - Valeria Parrella, Francesco Piccolo, Melania Mazzucco, Domenico Starnone - forse non era giornata.

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