A ricordarla comincia tu. Oggi è un anno esatto senza Raffaella Carrà che se ne è andata quasi a bruciapelo il 5 luglio 2021, poco dopo aver compiuto 78 anni, con pochissime persone ad accompagnarla. Aveva tenuto tutto segreto, aveva celebrato anche l'addio alla vita con la stessa riservatezza con la quale l'aveva vissuta. Sotto i riflettori quand'era sul palco oppure davanti alle telecamere o sulle prime pagine. Ma in silenzio, discreta e riservata, per tutto il resto.
Eppure era diventata una icona globale, una popstar nel senso di stella pop al punto che nel 2020 il Guardian la incoronò sex symbol in quanto «icona culturale che ha insegnato all'Europa le gioie del sesso». Lo ha fatto senza strilli, posizioni di rottura, polemiche frontali. Dal «Tuca Tuca» con relativo balletto ideato da Don Lurio in avanti. Da «Com'è bello far l'amore da Trieste in giù, l'importante è farlo sempre con chi hai voglia tu».
Anche in questo Raffaella Pelloni, diventata Carrà all'inizio dei Sessanta, è stata una pioniera in punta di piedi, con il garbo innato di ragazza di provincia che, passo dopo passo, aggiunge peso specifico al proprio talento. Ingrata come spesso le capita, l'Italia finora le ha dedicato «solo» una parte di lungomare nella sua Bellaria dove la mamma gestiva con la nonna il Caffè Centrale. A Madrid invece le hanno dedicato una piazza nel quartiere Malasana, vicino Chueca, il quartiere simbolo della comunità omosessuale.
Raffaella Carrà è sempre stata una «solista», non ha mai massicciamente aderito ad alcuna lobby, è sempre rimasta una artista popolare che parlava a tutti rifiutando di diventare il simbolo di una sola categoria. Come si è detto spesso (e lo ha ripetuto ieri Red Ronnie a Morning News su Canale 5) Raffaella Carrà non faceva parte della cosiddetta «intellighenzia», non era sventolata come simbolo dagli intellettuali politicamente schierati. Anzi.
Per decenni, diciamola tutta, è stata quasi snobbata. Grandissimi ascolti tv, certo. Popolarità inattaccabile. Ma vi ricordate le polemiche snob intorno agli ormai mitici fagioli di Pronto Raffaella?, il programma che nel 1983 ha inaugurato in Rai la fascia di mezzogiorno fino a quel momento praticamente inesistente? Polverizzò i dati d'ascolto, intervistò protagonisti come Sandro Pertini e Madre Teresa di Calcutta eppure lo snobissimo sghignazzo sul barattolo di vetro pieno di fagioli diventò un must tra i radical chic. Per lei era il passaggio dalla sacralità del sabato sera ai toni meno formali dell'ora di pranzo. E per la tv fu l'inizio di una nuova era. Eppure, salvo poche eccezioni, quella che era la «Nostra Signora della tv» pativa le stesse pene di quasi tutte le icone pop: adorata dal pubblico, sopportata dagli altri. E dire che, proprio a un anno dalla morte, si può finalmente guardare con lucidità indietro negli anni della sua carriera. Dal Centro sperimentale di cinematografia fino a I compagni per la regia di Monicelli e al ruolo con Frank Sinatra nel Colonnello Von Ryan. Dall'ombelico mostrato cantando Ma che musica maestro! a Canzonissima con Corrado nel 1970 fino al Tuca Tuca con Alberto Sordi e a Milleluci con Mina, con la quale la rivalità fu semplicemente di maniera, alla Beatles e Rolling Stones per intenderci, niente di più.
E poi le canzoni.
Ci sono brani di Raffaella Carrà che ancora oggi sono super classici, e non solo perché i ritornelli li conoscono tutti dappertutto (anche Jovanotti ha «messo» Rumore nel primo concerto del suo nuovo Jova Beach party a Lignano). Sono super classici perché hanno precorso i tempi e sono ancora nello spirito del tempo. Non a caso Raffaella Carrà è un simbolo della consapevolezza sessuale che è riconosciuto e citato in tutte le grandi manifestazioni, nei concerti, negli happening, nei Pride. Ma non era una «guerrillera», non faceva proclami né combatteva battaglie politiche o massmediali. Era un'artista. E proteggeva la propria riservatezza, vivendo la vita privata in quanto tale, ossia privata dei riflettori. E così hanno fatto anche le persone che l'hanno seguita e accompagnata, come Sergio Iapino, che l'ha rispettata anche dopo la morte senza parlare, senza fare rivelazioni o confessioni postume. Anche in questo Raffaella Carrà è stata controtendenza. Sempre focalizzata sul lavoro (anche il celebre caschetto era stato chiesto a Vergottini per avere un taglio che non perdesse forma nonostante i movimenti di danza). Sempre al centro dello spettacolo ma lontana dalla spettacolarizzazione. A un anno dalla morte, per lei continuano a parlare i brani come Festa, che nella versione spagnola Fiesta è un super classico. O come A far l'amore comincia tu, remixato da Bob Sinclar e incluso anche da Sorrentino nella Grande Bellezza. Uscì nel 1976, l'alba della disco music e il solleone del cantautorato impegnato, e di certo non fu celebrato come un capolavoro. Eppure quelle parole sono diventate slogan.
Sono state scritte da Daniele Pace e inserite in un 45 giri con Forte forte forte (con il testo di Cristiano Malgioglio) e sono ancora la colonna sonora di una rivoluzione che oggi ha toni provocatori e dirompenti lontanissimi dallo stile Carrà, la vera popstar che faceva parlare la propria arte senza farne manifesto. Il contrario di chi, oggi, fa manifesti senza avere nessuna arte.
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