Tra la fine degli anni Quaranta e la prima metà degli anni Cinquanta apparvero in edicola, a fascicoli da rilegarsi in volume, due opere importanti e destinate a diventare famose, dal titolo Due anni di storia 1943-1945 e Venti anni di storia 1922-1943. Le aveva scritte Attilio Tamaro, uno storico di sentimenti irredentisti e nazionalisti che aveva ricoperto incarichi diplomatici durante il ventennio fascista, ma che non aveva aderito alla Repubblica Sociale. Pubblicate quando la letteratura storiografica sul fascismo era condizionata dall'ideologia, queste opere furono guardate con sufficienza e diffidenza non tanto per il fatto di essere state diffuse a dispense - a quell'epoca apparvero a fascicoli lavori importanti come la monumentale Storia del Risorgimento di Cesare Spellanzon e la Storia d'Italia nel periodo fascista di Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira - quanto per il passato politico dell'autore. Eppure esse, per la vastità di ricerca e la ricchezza di documentazione, sono all'origine di una storiografia più equilibrata rispetto all'approccio politico-ideologico dominante nel dopoguerra.
Nato a Trieste da una famiglia della piccola borghesia locale, Attilio Tamaro (1884 - 1956) fu sin dalla giovinezza coinvolto nella passione irredentista che travasò nelle battaglie giornalistiche, negli scritti storici, nell'attività politica. Durante il primo conflitto mondiale, volontario nel Regio Esercito italiano al pari di altri irredentisti come Giani Stuparich e Ruggero Fauro Timeus, si avvicinò nel dopoguerra al fascismo ed entrò nei ranghi della diplomazia. Fu console generale ad Amburgo e, come ministro plenipotenziario, svolse le funzioni di ambasciatore prima in Finlandia (1930-1935) poi in Svizzera fino al 1943, quando venne messo a riposo. Il suo rapporto con il regime si incrinò a causa delle leggi razziali, tanto che gli venne ritirata la tessera del Partito fascista per i suoi rapporti con imprenditori e intellettuali triestini di origine ebraica. Si comprende, quindi, perché egli non abbia nutrito simpatia per la Repubblica Sociale.
Alla figura e alla personalità di questo intellettuale passato alla storia come il maggiore protagonista dell'irredentismo giuliano e come autorevole storico di Trieste ha dedicato un ottimo e ampio profilo Gianni Scipione Rossi: un profilo che apre il suo volume Attilio Tamaro: il diario di un italiano (1911-1949) edito da Rubbettino (pagg. 1072, euro 49) e che offre un vivace e suggestivo affresco di quasi quattro decenni di storia italiana ed europea. Frutto di attente ricerche archivistiche e di uno scandaglio approfondito della letteratura memorialistica e storiografica, il saggio di Gianni Scipione Rossi è un contributo importante per la conoscenza di un tipico intellettuale del mondo irredentista e nazionalista ma è, al tempo stesso, lo strumento migliore per introdurre la lettura del diario di Tamaro che, trascritto e annotato, costituisce la parte più corposa del volume.
Il diario, il cui originale è ora conservato presso gli archivi della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, fu scritto, secondo una prassi consolidata nel mondo politico-diplomatico dell'epoca, di getto e senza pensare a una eventuale pubblicazione. Contiene appunti, riflessioni, indiscrezioni raccolte e messe per iscritto sia come pro-memoria sia come materiale per futuri lavori. Proprio qui, nella spontaneità ed estemporaneità delle annotazioni, sta il suo valore aggiunto di testimonianza. Il lettore vi trova riferimenti alla biografia dell'autore e alla sua attività come diplomatico, ma anche, e soprattutto, una miniera di informazioni, di retroscena, di gossip politico e non, di ritratti in controluce dei protagonisti della vita pubblica e culturale del tempo: un'opera, insomma, utile per far conoscere il volto oscuro e segreto degli avvenimenti. Sotto questo profilo, il diario di Tamaro è un documento fondamentale paragonabile, per la mole delle notizie e l'acutezza delle analisi, ad altri diari di gerarchi o personalità politiche, a cominciare da Ciano e Bottai.
L'autore - pervaso dalla passione irredentistica e diviso tra giornalismo, ricerca storica e attività diplomatica - attraversò, si è detto, anche da protagonista, oltre che da osservatore, le fasi più significative del Novecento e, in particolare, gli anni di quel fascismo del quale, nel secondo dopoguerra, si fece storico. Le sue annotazioni mettono dapprima in luce l'entusiasmo di un nazionalista, quale egli era, di fronte ai successi iniziali e alle azioni del fascismo in politica estera e in politica interna, ma poi, andando avanti nel tempo, descrivono in maniera impietosa il declinare del regime a causa di scelte sbagliate e l'affievolirsi del consenso. Il progressivo avvicinamento alla Germania viene visto negativamente. Già alla metà degli anni Venti, Tamaro, contrario all'idea di un «fascismo universale», sostiene che il nazionalismo degli hitleriani non ancora al potere altro non è «se non il vecchio pangermanesimo» e che «le sue componenti storiche e morali» sono «essenzialmente diverse da quelle del nazionalismo italiano». E anni dopo, nel 1934, trovandosi a Vienna, annota: «Sono stato sempre contrario all'identificazione del fascismo con l'hitlerismo e ho sofferto quando ho veduto che per quella identificazione si faceva all'amore e non politica con la Germania».
Tamaro era cresciuto, in fondo, alla scuola del realismo e concepiva il fascismo - assai bene lo sottolinea Gianni Scipione Rossi - come «un sistema politico, non una religione laica», ma ignorando o sottovalutando il fatto che anch'esso andava imboccando la strada della trasformazione in religione laica o secolare al pari del nazionalsocialismo e del bolscevismo. Il diario registra, attraverso episodi grotteschi e indiscrezioni aneddotiche, certi lati risibili della vita del regime e dei gerarchi. Come, per esempio, la vicenda di Achille Starace che, avendo un'amante mancina, incarica il segretario di cercargli un servizio da te per mancini. O anche le proteste di Claretta Petacci con il capo della polizia per il fatto di essere pedinata. E via dicendo.
Importanti sono, poi, le annotazioni sulla crisi del regime. Già nel febbraio 1943, per esempio, Tamaro registra voci che parlano della necessità di sostituire Mussolini: «ho udito in questi giorni affermare da più di un amico l'urgenza di cambiare il governo o almeno il capo, che non ha saputo risparmiare tante sciagure all'Italia». Il 27 maggio riferisce di un incontro di Aldo Rossini con il Re e apprende che la crisi è imminente, che i militari preparano la caduta di Mussolini, e che sarà scelto Badoglio come nuovo capo del governo. Il 26 luglio descrive con pennellate impressionistiche la situazione e commenta la caduta di Mussolini con un riferimento storico: «sembra di rivedere in atto la vicenda di Napoleone tra la polvere e gli altari. Ieri il dittatore stava ancora in gloria e, se avesse chiamato i seguaci a raccolta, i fasci gli avrebbero portato in piazza Venezia migliaia di uomini e decine di migliaia di agnelli. Oggi, non nella polvere, ma nel fango». La reazione popolare gli appare ingiusta e «tanto più feroce quanto più cieca è stata la fede», tuttavia il dittatore «ha meritato di cadere ben più del Corso, perché questi sprecò il suo genio sino all'ultimo momento per salvare la vittoria e l'onore, mentre quanto Mussolini ha fatto, o meglio, non ha fatto in Sicilia è vero tradimento all'Italia e all'alleato. Vero tradimento». Mussolini, da lui prima giudicato con favore, diventa, durante la Repubblica Sociale, «il farneticante di lassù»: il che lascia intendere perché il nome di Tamaro, indicato da Filippo Anfuso a Mussolini come possibile ministro degli Esteri, non sia stato da questi neppure preso in considerazione.
Tamaro è anche acuto e impietoso osservatore del dramma del dopoguerra. Per lui i responsabili della tragedia sono «prima i fascisti, poi il Re, quindi gli stranieri». La liberazione è avvenuta solo grazie alle armate anglo-americane: «di che liberazione può vantarsi finora il comitato millantatore, che non ha tratto dalla servitù nemmeno se stesso? S'è tenuto bene stretto, ma nei rifugi e nei conventi e nei lauti conviti per poter arraffare il potere appena gli stranieri gli avessero permesso di stanare con sicurezza. È gente vile».
E quella che si instaura è «falsa democrazia, alla quale la libertà è pura maschera». Monarchico convinto, anche se disilluso, Tamaro ha lasciato con questo diario quasi una confessione intima, un'opera di grande spessore che ha il valore di una significativa fonte storica.
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