Basso, buffo e spietato. Un Canetti spettacolare

Tutti gli "Appunti" in un solo, devastante libro: dagli aneddoti su Joyce agli aforismi sulla vita

Basso, buffo e spietato. Un Canetti spettacolare

Sembrava fuori luogo; il tremore tradiva lo smarrimento, una specie di fastidio. Sembrava Yoda, lo Jedi, il guru di Star Wars. Basso, buffo, baffi crudi, occhiali, Elias Canetti, il maestro segreto del secolo, è il 1981, pare Yoda. Yoda che ritira il Nobel per la letteratura. Al suo fianco, Hera Buschor, la seconda moglie, più giovane di trent'anni, dotata di una bellezza violenta, pericolosa. Come gli antichi maestri, Canetti, a Stoccolma, non proferì discorso. Ringraziò chi, a suo dire, avrebbe meritato il Nobel più di lui: Karl Kraus, «il più grande autore satirico in lingua tedesca», Franz Kafka, Robert Musil e Hermann Broch. Di quest'ultimo, Canetti era intimo, fino all'invidia. «Ogni essere respirante, e quindi ogni persona, poteva catturare Broch. Era stupefacente il modo in cui si esponeva...». Ne Il gioco degli occhi il suo libro più bello, naturalmente autobiografico, perché come tutti i veri maestri Canetti ha passato la vita auscultando la vita, misurando il mondo alla propria crudeltà descrive Broch come un'aquila, «un uccello, grande e bellissimo». In verità, gli pareva un avvoltoio. Stupefacente donnaiolo, Canetti era andato fuori di testa per Anna Mahler, superba figlia di Gustav, il compositore, e di Alma, musa di decine di artisti. Anna, però, non aveva occhi che per Broch e gli occhi di Anna parevano giaguari. «Vi sono occhi che fanno paura perché mirano solo a sbranare. Servono a rintracciare la preda che, una volta scoperta, è condannata a essere preda... è tremenda la fissità di uno sguardo inesorabile». Non esiste, nella storia della letteratura, descrizione così feroce di uno sguardo. Canetti emerse dagli sguardi di Alma disossato: usava scrivere come si fa lo scalpo, con la gioia grigia di chi compie vendetta; in quel giro d'anni, nel 1934, sposò Veza, la prima moglie. Più di tutti, tuttavia, Canetti adorava il dottor Sonne. Ebreo, cupo e gentile, cauto come un cobra, «Sonne non parlava mai di sé. Non diceva mai niente in prima persona», conosceva la Bibbia a memoria, «non si faceva toccare da nulla». A quindici anni il dottor Sonne, con il nome di Abraham ben Yitzchak, «aveva scritto un certo numero di poesie ebraiche che avevano suggerito a qualcuno un paragone con Hölderlin» (le sue Poesie, per chi ha voglia di avventure liriche, sono state raccolte da Portatori d'Acqua nel 2018). Da allora, Sonne non aveva scritto un verso, «si pensava si fosse imposto il divieto di scrivere poesie», si era dimenticato di quelle poesie. Canetti avrebbe voluto essere come lui, possedere quella maestria. Denudarsi fino all'anonimato. Dissipare l'opera nel diniego, nel divieto. Morire puro di verbi. Invece, scrisse moltissimo.

Che paradosso: il romanzo più bello di Canetti è un saggio, Massa e potere. Lì la tensione epigrafica di Qohèlet si fonde alla lampeggiante saggezza di Confucio. È un libro affascinante, quello, scandito di allusioni e di enigmi. L'unica opera autenticamente letteraria di Canetti, Auto da fé, invece, è schematica, involuta, affascinante a tratti, scritta sulla ruggine. Canetti era per lo più un poligrafo: autentico rabbi, era certo che il mondo esiste finché qualcuno lo scrive, che la realtà non è ciò che ci circonda ma quello che giace in una frase, in quel falò di vocaboli. Per questo, l'opera autentica di Canetti quella che lo rende maestro è l'orda di appunti nascosti, di chiose a margine, di paragrafi abortiti, scarti grammaticali scanditi dallo scandalo interiore. In una nota, Canetti li chiama «quaderni di appunti»: il fatto che «non servissero ad alcuno scopo», sorti nell'aura di una ferale spontaneità, «non li rileggevo mai e non vi correggevo nulla», del tutto irresponsabili, li rende straordinari, una capriola nel sortilegio, al di là della bieca ragione. Ora questa torma di Appunti, pubblicati in fasi diverse La provincia dell'uomo; Il cuore segreto dell'orologio; La tortura delle mosche; Un regno di matite , è raccolta in un unico libro (Adelphi, pagg. 884, euro 18), da maneggiare come libro d'ore, come testo taumaturgico. Il bello del vagabondaggio per illuminazioni è che tutto è candido, eletto alla contraddizione; dalle frasi apodittiche («Tenere in vita gli uomini con le parole non è già quasi come crearli con le parole?»; «Dell'aldilà è rimasto il nulla, la sua più pericolosa eredità»; «Sogna di distaccare il suo cuore da tutti coloro che vi hanno affondato i denti: d'improvviso se lo ritrova intatto in mano») è inutile mungere un sistema, un dogma, ogni concetto è futile come una sfera di mosche, facile alla sconfitta, indifeso perciò, magnetico. Come una belva sotterranea, Canetti costruisce un dedalo di catacombe, famelico di mostri, costellando petroglifi; il suo lavoro s'installa, per dedizione, nelle infinite non-finite opere del secolo: i quaderni di Paul Valéry e quelli di Simone Weil, gli aforismi di Kafka, i taccuini di Albert Camus, i fogli sparsi di René Char, gli aforismi sommersi di Cioran... Quasi che il più autentico, il più importante non possa essere pubblicato, a malapena messo per iscritto, lasciato lì, a galleggiare nell'indecisione, che pudore allucinante.

Morì nel 1994, poco prima di Ferragosto, a Zurigo, Canetti. È sepolto di fianco a James Joyce. Lo aveva conosciuto nel 1935; il grande irlandese gli si era rivolto con ostilità chissà perché dicendogli, «Io mi faccio la barba col rasoio, senza specchio!», quasi che lo specchio fosse la porta per gli inferi. Sopravvisse a entrambe le mogli: la Buschor morì nel 1988; Veza delicata scrittrice, aveva tradotto Graham Greene si era ammazzata nel 1963.

«Si conosce la persona che ci è morta, si misconoscono tutti i vivi», scrive Canetti, quell'anno, nei suoi quaderni. Proprio così: questo libro ci attacca alle spalle, ci riconcilia con i morti, senza mediazioni, è medianico.

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