Se avete voglia di farvi un giro nello spazio, ma non disponete dei 125mila dollari necessari per accaparrarvi una poltrona sulla navicella di Jeff Bezos, potete sempre ripiegare su un'alternativa più economica. Da oggi, 8 ottobre, ogni settimana, potete trovare in edicola The complete collection, ovvero l'opera omnia di Franco Battiato. A pochi mesi dalla sua scomparsa, infatti, viene riproposto tutto il suo repertorio: trenta album in studio pubblicati tra il 1972 e il 2019, sei live e due dvd. Più che un cofanetto un'astronave, non solo per le dimensioni che non saranno certamente tascabili, soprattutto per la varietà dell'esperienza. Nei quarantasette anni di produzione del cantautore catanese non è solo incisa una parte della musica italiana, ma è messa in note una sorta di radiografia della musica stessa tra gli anni Settanta e i primi Duemila.
Chi non conosce Battiato e pensa di trovarsi di fronte a un'opera apparentemente coerente, rimane inevitabilmente deluso. O meglio, la coerenza c'è, ma per come la intendeva artisticamente lo stesso cantautore: cioè una continua esplorazione sonora che a tratti può sembrare contraddittoria, ma che ambisce costantemente a una evoluzione. Con esiti alterni. Chi si innamora dell'universo Battiato, deve fare i conti con inevitabili e costanti tradimenti. Lo pensate mistico, ma all'orecchio suona fedifrago. L'alta fedeltà, in questo caso, è solo un concetto da tecnici del suono. Mai un disco uguale all'altro. «Sono curioso, bugiardo e infedele», canta nel 1998 nell'album Gommalacca, giusto un paio di anni dopo aver inciso una della canzoni d'amore più belle di sempre: La cura. Per questo l'opera omnia è particolarmente interessante: è come invitare allo stesso party quattro hippy, due raver, cinque melomani in smoking, due discotecari, qualche appassionato di leggerissime canzonette radiofoniche e una pattuglia di cultori di indigeribile musica sperimentale. Che poi era un po' il parterre dei concerti con i quali Battiato riempiva piazze, palazzetti e teatri di tutta Italia.
Quindi, prima di salire su questa astronave, è giusto sapere che cosa si incontrerà: i primi - ruvidi e ingenui - suoni liquidi dei sintetizzatori, chitarre distorte e filtrate, collage sonori bizzarri e azzardati che incrociano melodie classiche con spezzoni di radio e frammenti di vita urbana, percussioni che sembrano venire da un passato tribale e poi batterie elettroniche a 180 bpm che potrebbero far tremare il muro di casse di un teknival (d'altronde «nei ritmi ossessivi la chiave dei riti tribali»), eleganti e sofisticati arrangiamenti per orchestre filarmoniche, opere liriche, musiche per balletto, capolavori pop confezionati per sbancare le hit parade, canzoni (ammesso che così si possano chiamare) di 14 minuti in cui si ripetono pochissime note variando solo le pause prodotte per una nicchia ristrettissima, brani «orizzontali», simili ai salmi, come tappeti sonori srotolati per il misticismo e la liturgia e poi tracce ispirate alla più dionisiaca lisergia. Musica per pensare, musica per meditare (e non pensare) e musica per ballare. Ma anche per non fare niente, come è proprio del più leggero degli intrattenimenti. Dentro c'è tutto (o quasi) quello che si può cercare e, sia chiaro, ci sono canzoni orecchiabili e altre assolutamente inascoltabili (scegliete voi quali, secondo i vostri gusti), brani che rimarranno nella storia della musica e altri che sono già, meritatamente, scivolati nel dimenticatoio. Perché questi trenta dischi, alla fine, sono il laboratorio a cielo aperto di un alchimista che non ha mai finito la sua ricerca. Che è la ricerca del sacro, dello spirito, del trascendente.
L'asse attorno al quale ruotano tutti i vari Battiati musicali è, senza dubbio, il Battiato spirituale. Dalle particolarissime sperimentazioni di Pollution («Ti sei mai chiesto quale funzione hai?») ai versi universali di E ti vengo a cercare, passando per l'esoterismo in poesia del Re del Mondo e i divertissement gurdjieffiani da più di un milione di copie di Centro di gravità permanente.
Una ricerca perpetua che attraversa tutta la sua produzione. E non ci sentiamo di escludere che i lavori, da qualche parte, siano ancora in corso. Ma guai a trasformarlo in santino o santone, lui preferirebbe vederci danzare.
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