L'uscita, a poca distanza l'uno dall'altro, di un romanzo di Georges Bernanos (L'impostura, Gog Edizioni, traduzione di Federico Federici, introduzione di Juan Asenio, pagg. 291, euro 16) e di un saggio su di lui (Luc Estang, Un uomo libero. Vita di Georges Bernanos, Oaks Editrice, traduzione di Guido Stella, introduzione di Paolo Gulisano, pagg. 210, euro 20), può essere motivata da vari fattori, in primis una sensibilità editoriale che vede nel recupero di autori importanti quanto controcorrente del Novecento il suo tratto distintivo. Non mi sorprenderei però se dietro quella scelta ci fosse anche un prendere atto che in questi tempi di pandemia, crisi economico-sociale, vero e proprio malessere psichico, un nome come Bernanos funzioni come cartina di tornasole e come antidoto: fa venire alla luce il vuoto esistenziale che ci circonda e che ci penetra, permette di costruire un'alternativa dove l'attenzione verso gli altri e l'umiltà nei confronti di sé stessi, la misericordia nel suo significato più puro, una più generale idea di dignità sono gli elementi fondamentali.
Si dirà: Bernanos è uno scrittore cattolico, ma il suo è un cattolicesimo da grandi cattedrali medievali e non da concili vaticani, più vicino allo stoicismo che al pauperismo o alla «teologia della liberazione»...
I due libri in questione sono naturalmente diversi, di là dalla loro natura. Nonostante non sia fra i suoi romanzi più famosi, L'impostura (datato 1927) è egualmente fra i suoi romanzi più importanti, Sotto il sole di Satana e Diario di un curato di campagna, per intenderci. Un uomo libero risente invece maggiormente, specie sotto il profilo della scrittura, dello scorrere del tempo: uscito in Francia nel 1947, Présence de Bernanos venne tradotto da Morcelliana nel 1952 (Georges Bernanos), di biografico aveva poco e molto, troppo di uno scavo filosofico-teologico che al lettore non ferrato in materia concedeva scarsa possibilità di comprensione. L'introduzione ad hoc di Polo Gulisano cerca di porvi rimedio, ma è un compito arduo. Sotto questo aspetto, la prefazione di Juan Asensio alla ristampa di L'impostura, con i suoi riferimenti a Cuore di tenebra di Conrad, alla cinematografia di Bergman, al Malraux della Condizione umana, al Macbeth shakespeariano proietta sul romanzo una luce nuova, inaspettata.
Storia di un religioso, l'abate Cénabre, che ammette a un certo punto ciò che ha sempre nascosto a sé stesso e agli altri, ovvero di non avere la fede, L'impostura rimanda a una parola chiave dell'universo bernanosiano: non ha nulla a che vedere con la menzogna, e nemmeno con l'ipocrisia, ma è l'accettazione del nulla, il nichilismo senza speranza, ovvero la disperazione allo stadio puro, tanto più grave nel suo democratizzarsi, nel suo divenire fenomeno di massa: «La società moderna assiste senza comprendere a questo fenomeno capitale, unico: l'alterazione, forse ormai senza rimedi, del senso religioso dell'uomo moderno, che falsa ogni equilibrio della vita sociale, comincia a sviluppare enormi passioni collettive il cui contagio minaccia di estendersi da un capo all'altro dell'universo».
Questo spiega anche la potenza, stavo per dire la muscolarità, dello stile di Bernanos, una sorta di corpo a corpo con le idee e con i protagonisti, con i suoi stessi lettori, tanto più evidente nei romanzi perché a incarnarlo sono poveri curati, malfermi e sottoalimentati, giovani e apparentemente sempre fuori posto, e però animati dalla fede e dal senso della dignità dell'essere umano, per i quali l'accettazione della morte come prova suprema è affermare coraggio, onore. In un bel passaggio del Diario di un curato di campagna, il giovane ufficiale disilluso che disprezza l'avvilimento, la laicizzazione di ciò che un tempo era stata la servitù militare, dice al parroco di Ambricourt: «Siete un ragazzo in gamba. Al mio letto di morte non vorrei altro curato che voi». Per dirla con Bernanos, «ho sognato di santi e di eroi: le forme intermedie le ho trascurate perché mi sono accorto che esistono appena».
E però, sulla santità, sull'eroismo, bisogna intendersi, perché non ha nulla a che vedere con l'oleografia che spesso e volentieri circonda questi due termini, non rimanda a imprese leggendarie, a opere ed esistenze esemplari: è fatta di umiltà, di quotidianità, di consapevolezza delle proprie miserie, della propria umana inadeguatezza. Ad animarli è il sì alla vita, l'idea di un senso, di un significato e, nel caso dei suoi protagonisti in abito talare, naturalmente, la grazia. Non a caso il romanzo più nero di Bernanos, Il signor Ouine, è la descrizione-constatazione di un villaggio, Fenouille, abitato dalla follia perché svuotato di ogni purezza e di ogni grandezza. Per Bernanos, l'inferno non sono gli altri, siamo noi, il gelo e il vuoto che ci abita.
Definire tutto ciò come meramente predicatorio è un esercizio retorico, perché i romanzi di Bernanos si impongono anche al lettore che non è credente, sono fonte di suggestione e, come dire, di disagio, lo scuotono rispetto a tante, troppe certezze frettolosamente accettate. Anche in quelli dove l'elemento più scopertamente religioso è assente, si pensi alla Nuova storia di Mouchette, la sua capacità di indagare nel profondo aiuta a delineare le psicologie più indifese, lì dove la povertà, la semplicità e l'ignoranza privano l'essere umano di ogni possibilità di reazione che non sia la resa, il lasciarsi andare, l'essere inghiottiti dalla indifferenza del mondo.
Allo stesso modo, fare del romanziere Bernanos un polemista travestito, un pamphlettista che usa la narrativa come un corpo contundente ideologico, non aiuta a cogliere la singolarità della sua opera. Non solo e non tanto perché, come da lui stesso sottolineato, «un polemista è divertente fino ai vent'anni, tollerabile fino ai trenta, seccante verso i cinquanta e poi osceno. Lungi dall'eccitarmi, io passo il tempo a cercare di comprendere, unico rimedio contro la forma di delirio isterico in cui finiscono per cadere i disgraziati che non possono fare un passo senza inciampare in un'ingiustizia accuratamente nascosta sotto l'erba, come un trabocchetto».
In realtà, Bernanos è una sorta di meteorite antimoderno caduto nel XX secolo, ma che, senza indulgere in battaglie di retroguardia, si ostina a combattere per quei valori che attraversano i secoli, che hanno a che fare con la costruzione e la difesa di una comunità: «Esiste una borghesia di sinistra e una borghesia di destra. Non c'è invece un popolo di sinistra e un popolo di destra, c'è un popolo solo. L'idea che io mi faccio del popolo non è per nulla ispirata da un sentimento democratico. La democrazia è un'invenzione degli intellettuali, all'identico modo, in fin dei conti, della monarchia di de Maistre. Il popolo esige il lavoro, il pane, e un onore che gli sia affine, che assomigli al suo lavoro e al suo pane (...). La società moderna lascia distruggere lentamente, in fondo alla propria cantina, un meravigliosa creazione della natura e della storia (...): È il popolo che dà a ogni patria il suo carattere originale».
Anche l'anti-intellettualismo di Bernanos viene da questo humus popolare. Non c'è nulla in lui del letterato, nessuna torre d'avorio lo isola dal suo tempo. Da ragazzo, quando faceva parte dei camelots du roi dell'Action française di Charles Maurras, era finito più volte in carcere per scontri e tumulti di piazza, e aveva partecipato a un complotto, miseramente fallito, per ristabilire la monarchia in Portogallo... Volontario nella Grande guerra, nonostante fosse stato riformato alla visita di leva era stato più volte ferito, si era meritato una decorazione... La passione per la velocità e la motocicletta gli varrà varie fratture, fino all'incidente più grave che lo rese storpio, costringendolo a usare le stampelle fino alla morte.
Nel 1946, quando è appena rientrato in Francia dal Brasile dove si era autoesiliato, e gli restava ancora poco da vivere, il ventenne Roger Nimier è solito andarlo a trovare all'Hôtel Cayré, nel Quartiere latino, dove è provvisoriamente alloggiato: «Non si poteva vederlo senza riconoscerlo subito per quello che era: un colonnello dei Corazzieri ferito a Waterloo e che si appoggiava su due grucce. Era vestito con un misto di austerità e di negligenza, degna di un ufficiale a mezza paga o di un Signore spagnolo in esilio: un Grande di Spagna.
Tutto in lui indicava questo destino: la nobiltà dello sguardo, i suoi occhi pesti e fino a quella voce straordinaria, torrenziale, rauca, dove si ritrovava il tono delle vecchie corti d'Europa. Si sedeva, si prendeva la testa fra le mani, scuoteva la sua criniera; e poi si animava». Un monaco guerriero.
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