Il canto di Bassani è libero, dalle rime fino agli epitaffi

Nel 1947 l'autore scrisse di non amare i poeti "freddi e calcolatori". Profezia del futuro potere letterario

Il canto di Bassani è libero, dalle rime fino agli epitaffi

La raccolta di tutte le poesie di Giorgio Bassani (Poesie complete, Feltrinelli, pagg. 656, euro 35; premessa di Paola Bassani; a cura di Anna Dolfi) sarà sicuramente preziosa, con il suo apparato di note di impressionante vastità e acutezza, per lo studioso e il cultore dell'opera di Bassani. Io mi sono accostato al libro da semplice lettore, e assicuro che è stata una esperienza forte e rivelatrice. Ricordavo appena, sia pure vividamente, la poesia intitolata Gli ex fascistoni di Ferrara, ma grazie a questo volume sono ripartito dall'inizio, dal Bassani di Storie dei poveri amanti e altri versi, uscito nel 1945, e di Te lucis ante, di due anni dopo. Sono partito dalle poesie in rima.

Bassani ha all'inizio una metrica chiusa, con versi che molto spesso sono martelliani, due settenari accoppiati, e creano una musica distesa, nient'affatto ermetica, e persino diversa da modelli che potrebbero sembrare vicini, come quelli di Attilio Bertolucci. Sentite qui: «È a quest'ora che vanno, per calde erbe infinite/ verso Ferrara gli ultimi treni, con fischi lenti». I paesaggi sono quelli tra l'Emilia e la Romagna, tra Bologna e Ferrara, pianure, nebbia, ciminiere lontane, strade ferrate, intorno a cui vivono una sola estate i girasoli della bellissima poesia omonima, che sembrano intonare un canto di lode a Dio quando viene sera, si alzano foschie leggere e l'erba è calda di amanti: i girasoli «nel sonno piegano i volti sereni/al lungo bacio d'addio dei treni».

Poi, con Epitaffio, del '74, e con In gran segreto, del '78, tutto cambia. Qualcosa è morto, e si capisce bene sin dal titolo, fuori e dentro l'autore. Sono passati decenni, Bassani è diventato un romanziere di grandissimo successo, un decisivo consulente editoriale, un uomo pubblico, e in quanto tale è diventato il bersaglio preferito del nuovo potere letterario, degli esponenti del Gruppo 63, che organizzano contro di lui (e contro Cassola) una sistematica campagna di attacchi demolitori. In uno scritto del 1947, Bassani confessava di aver accarezzato l'immagine di una poesia «degna di quella delle grandi età della storia». Parlava della diffusa impotenza dell'arte novecentesca, che rende i poeti «freddi e calcolatori come matematici, lugubri come periti anatomici», che ridono e giocano contro lo schermo del vuoto e teorizzano l'assenza della poesia. Rilette oggi, queste parole suonano più che come una diagnosi, come una profezia. Negli anni Settanta la poesia è data per morta, si parla di antipoesia, si irride tutto il resto. Ecco dunque Epitaffio. Il cambio di passo metrico, linguistico, lessicale, tematico è clamoroso. La rima scompare e scompare il verso sillabico e la strofa. Le parole si dispongono sul foglio come sul marmo di una lapide. Linee lunghe, brevi, spezzate. Non c'è il respiro cosmico di Walt Whitman, né la disperata narratività mitica di Pavese, né la scettica ironia pariniana del Montale di Satura. Bassani, alto borghese di famiglia ebraica, fa i conti con la propria esistenza e con il mondo, con egocentrismo sprezzante, spirito polemico, verve altezzosa: con livore a volte, a volte con umanissima pietà. Cosa vogliono gli ex fascistoni di Ferrara dal vecchio compagno di scuola un tempo evitato e ormai famoso, che nuova sordida complicità cercano con lui? «No piano/ come cazzo si/ fa?// prima/ cari/ moriamo». C'è il tono dell'invettiva: «Non essere/ stupida sei già/ porca/ non ti basta?». E il tono della visionarietà oniricosimbolica, come nella formidabile Rolls Royce, un viaggio in sogno verso la propria Ferrara dell'infanzia e la morte. E c'è la narratività allo stato puro, come in Storia famigliare, col personaggio di zio Giacomo detto Dedo e il suo malinconico destino, e la memorialistica autoironica di Campus e delle proprie esperienze nelle università americane.

Bassani coglie le immagini con una sottigliezza affascinante, un giornale aperto in preda al vento e alla pioggia visto danzare da dietro il parabrezza e il viavai del tergicristallo, una magnolia nel cortile di casa che, piantata subito dopo le leggi razziali, ora cresce e si espande libera nel cielo. E registra persino le scritte a caratteri cubitali sui muri di Roma, cavandone deliziosi spunti lirici. C'è il tono dell'epigramma, della suprema amarezza di quando cade sotto il fuoco amico: Natalia Ginzburg che stronca freddamente Epitaffio, portando con sé tutto il giro romano (ineffabile il titolo di un articolo di Enzo Siciliano, «Non piace a Natalia», che avrebbe dovuto far alzare un coro di chissenefrega). Ci sono versi dedicati a Cesare Garboli (per il quale parla di «bischeraggine generazionale»), a Franco Fortini. Ma c'è anche un lirismo puro, antico, testi che richiamano sin dal titolo Orazio e Alceo, in versi di una semplicità e di un nitore raro nella poesia del '900. I critici hanno parlato di eccesso di soddisfazione, esibizione, vanità. Io credo il contrario, Bassani è stato in queste poesie di una disarmante, urticante sincerità.

Solo contro tutti, la poesia è viva e vita, sembra dire, lo scrivo a lettere di fuoco nel cimitero del '900, è discorso, saggezza, memoria, sogno, futuro, passione, rabbia, bisogno di dire. Inattuale sempre, controtempo, libera. Insomma, esco dalla lettura di queste poesie convinto che si salveranno più di tante altre del secolo scorso. E che di esse abbiamo ancora bisogno.

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