Carlo Cassola (1917-87), di cui ricorre il centenario della nascita, ebbe un destino ingiusto, sfiorato dalla tragedia. Prima fu baciato da uno strepitoso successo, e subito dopo accoltellato, vilipeso, eletto a ridicolo emblema di cattivo gusto letterario. Uno scrittore «rosa», una moderna Liala, sibilò Edoardo Sanguineti, e negli anni Sessanta in tanti presero per buona quella perfida definizione. Confesso che in uno dei miei primissimi scritti lo feci anch'io, e che quando mi decisi a leggere Cassola davvero mi sentii come in debito con lui: avevo imparato, a mie spese, a scrollarmi di dosso ogni idea ricevuta e a prediligere i percorsi controcorrente.
Ora, rileggendolo ancora una volta, posso confermare che Cassola mi appare uno scrittore vero, diseguale da un lato, dall'altro fedele al proprio mondo e alla propria ricerca stilistica e morale. In un breve racconti giovanile, Ferrovia locale, che più tardi verrà ripreso e ampliato in un romanzo, mi appaiono bozzettistici i personaggi, i viaggiatori pendolari, i capannelli di borghesi e di operai che chiacchierano in stazione: ma mi basta poco a capire che i veri protagonisti sono il treno nel suo movimento, le ombre dei vagoni, i fili del telegrafo, i passaggi a livello e i paesaggi toscani tra Cecina e Campiglia, grandi campi, monti lontani, filari di viti. Una malinconia naturale e poetica riscatta subito la banalità delle quotidiane vicende umane, come sarà spesso nelle opere della maturità. In Un cuore arido, del 1961, leggo nella pagina finale che la protagonista Anna (nome prediletto dall'autore per i suoi personaggi femminili), disillusa e arresa, se ne sta al davanzale mentre viene l'alba, e pensa. «La vita quotidiana si componeva di tante cose, piccole e grandi, rifare i letti e mangiare, fidanzarsi e sposare; ma la vita vera era come il calore e la luce del sole, qualcosa di segreto e di inafferrabile». Ecco, queste righe contengono la chiave migliore per leggere Cassola, per capire come la sua descrizione della quotidianità apparentemente priva di spessore, i suoi fitti dialoghi intessuti di luoghi comuni, nascondano la ricerca, laicamente religiosa, di una verità che è sempre misteriosa e irraggiungibile.
La Ragazza di Bube, del 1960, è il libro di svolta della sua storia d'autore. Ispirato da una vicenda reale della Resistenza in quell'angolo di Toscana dove si inscrive il mondo dell'autore, il romanzo ha la Resistenza come sfondo non ideologico, non celebrativo, ma problematico. Per Cassola, conta la sostanza umana dei personaggi, le piccole cose delle loro esistenze valgono più di qualunque battaglia: non c'è epica, in lui, ma una elegiaca, amarissima dolcezza del vivere, dell'amare, del sentire, del sacrificarsi, dell'essere fedeli. Il partigiano Bube obbedisce all'idea che gli altri hanno di lui, quella del Vendicatore, e poi obbedisce al Partito. Nonostante la pistola che porta sempre con sé, è meno forte di Mara, indimenticabile figura femminile che giganteggia nel romanzo: indipendente, vitale, selvatica, impulsiva, capace di innamorarsi di Stefano, il mite intellettuale operaio della vetreria, ma di restare fedele sino al sacrificio alla promessa fatta a Bube, e di attenderlo mentre sconta i suoi quattordici anni di carcere per un delitto politico. Il romanzo vinse il Premio Strega, ottenne un vastissimo successo di pubblicò, ne fu tratto un film con un cast internazionale. Ma qualcosa andò subito di traverso. Già Togliatti in persona aveva rimproverato a Cassola la visione antieroica (e antiretorica, diremmo noi) della Resistenza. Pasolini fece di più: gli guastò la festa allo Strega, indicandolo come traditore ideologico nel suo discorso in versi In morte del realismo, modellato sul discorso shakespeariano di Antonio sulla morte di Cesare. Era una scomunica dal pulpito marxista. E poi vennero gli insulti dei Neoavanguardisti, gli stessi che combattevano Pasolini. Per dire come fu ampio il fronte nemico, il fuoco incrociato che fece a pezzi Cassola.
Nell'ultima parte della sua vita, malato, isolato, lui che aveva militato in giovinezza tra i socialisti e nel Partito d'Azione, iniziò una generosa e donchisciottesca battaglia antimilitarista, sino a postulare un utopico «Partito disarmista». Scrisse ancora romanzi, ma la sua vera passione era ormai l'impegno contro la guerra, in cui poteva sentirsi vicino ad Einstein, Bertrand Russel, Tolstoj, e lontano dalla malevola società letteraria italiana. Il risentimento di letterati che odiavano la poesia, consideravano morto il romanzo, e scrivevano abolendo trama e personaggi, lo avevano messo ai margini della letteratura.
Non posso dire che per me Cassola sia sullo stesso piano di un Calvino o di un Soldati, ma La ragazza di Bube, ad esempio, mi sembra un gran bel romanzo, che mi ricorda, fatte le debite differenze, la temperie di certe pagine di Jean Giono o di D.H. Lawrence. Un romanzo vivo, che vale la pena di leggere ancora: come certo non capita agli antiromanzi dei suoi più maligni detrattori di un tempo.
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