Chissà? Forse la libertà e cosa troppo seria da metterla in mano ai filosofi. Va dato atto a Salvatore Veca, uno dei più noti filosofi politici italiani, di accorgersene nel suo libretto sulla Libertà che esce in questi giorni per i tipi della Treccani (pagg. 118, euro 10). Alla fine, infatti, dopo averci proposto distinzioni e sottodistinzioni, istituendo e dissolvendo legami causali e corrispondenze, ammette che la tassonomica mai come in questo caso non adegua compiutamente la cosa e che della libertà si può solo dire che è in possesso di chi la vive e nel momento in cui la vive. Le tre questioni che egli si pone, in pagine ben scritte e che scorrono facili, giungono perciò tutte a un vicolo cieco: definire la libertà, darle un valore, interpretarne il senso.
L'impressione è che un po' di questa inadeguatezza del concetto rispetto alla cosa sia dovuta agli strumenti che Veca ha in mano, che sono quelli messi a sua disposizione dalla filosofia politica liberal contemporanea, a cominciare dalle «teorie della giustizia» di John Rawls e dal normativismo etico-giuridico di Ronald Dworkin. Certo, nel libro ritorna spesso anche il nome di Isaiah Berlin, ma il riferimento in questo caso è a un testo fortunatissimo ma ridimensionato successivamente dallo stesso autore: quello della conferenza oxoniense del 1958 sui due concetti, il positivo e il negativo, di libertà. Non c'è dubbio che Veca, che pur riconosce il carattere insoddisfacente della distinzione berliniana, sia portato a preferire la «libertà positiva», che non si limita a chiedere la non interferenza del potere sulle scelte individuali, ma reclama anche per ognuno la possibilità di contribuire a determinare il potere politico. Egli non esita perciò a richiamare e far proprio persino il Gaber che cantava che «libertà è partecipazione», non distinguendo però a mio avviso fra la giusta rivendicazione del carattere sociale (e non individualistico) della libertà politica e il carattere anch'esso liberale di chi semplicemente vuole essere libero anche di starsene a casa senza partecipare alla vita democratica.
Dispiace dare ragione al marxista Zizek e non a Veca, ma più che «tempi difficili», i nostri sono, a mio avviso, «tempi interessanti». Anche per la libertà, che non prospera in regime di pace e soddisfazione.
Il richiamo finale e l'appello all'illuminismo, contro ogni «romanticismo politico», è coerente col quadro delineato, ma anche in questo caso sembra dimenticare due aspetti a mio avviso non secondari: il primo, che ci sono diversi tipi di illuminismi e alcuni sono intolleranti e illiberali; il secondo, che il romanticismo politico nasce anch'esso da esigenze non sopprimibili dell'animo umano, come può essere ad esempio quella di salvare la particolarità e la diversità dei popoli contro l'omologazione e il conformismo della libertà cosmopolitica. È vero che la libertà combatte gli oscurantismi, ma è pur vero che troppa luce acceca. L'impressione è che il liberalismo viva nel chiaroscuro.
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