Andrea Bajani, con il suo Il libro delle case è in finale sia allo Strega, sia al Campiello. Se lo aspettava?
«Se c'è un sentimento con cui ho un rapporto difficile è la speranza, il più feroce degli animali. Però ho lavorato così tanti anni su questo libro, mi sono tirato fuori da tutto... Avevo deciso che non avrei più scritto un romanzo, a meno di avere un libro che fosse davvero importante per me».
Quanto è durato il silenzio?
«Cinque-sei anni, a parte le poesie».
Il protagonista è «Io», o meglio un uomo che «per convenzione chiameremo Io». Che cos'è questa «convenzione»?
«Sa quei musicisti di strada che suonano con i bicchieri e i barattoli, ma la loro musica non è quegli oggetti concreti, bensì Beethoven? Per Io ho preso dei materiali miei, qualche bicchiere, qualche casa; ma poi, quando la musica suona, è l'Io di tutti. Volevo il nome più comune del mondo, e invitare a un esercizio».
Quale?
«Passiamo la vita a dire Io, pensando di essere la stessa cosa di quando dicevamo Io a 16 anni, o a 25, e questo ci rassicura... Ma possiamo cercare di andare a incontrarci a quelle età, e il posto in cui questi Io sono immagazzinati sono le case».
Quindi Io non indica genericità?
«Al contrario, è la massima particolarità. Certo dipende da quante case hai avuto nella vita».
Però anche una stessa casa può cambiare.
«È vero, e tu cambi con, o contro, la casa. Le case ci condizionano: cambi una cucina e cambi l'umore... Siamo in relazione con la casa, come lo siamo con gli amori e i libri. E questa relazione cambia nel tempo e si tiene parti di noi, ce le porta via».
Come è nata la costruzione del romanzo, attraverso i capitoli dedicati alle singole «case»?
«Ero borsista all'American Academy di Roma e mi stavo appuntando nomi di case, mie o che mi piacevano; e, in 30 secondi, ho avuto una visione, quella di raccontare la vita di un uomo nel tempo, attraverso le sue case, che quell'uomo si sarebbe chiamato Io e che la prima casa sarebbe stata la mia».
Tutto insieme?
«Sì. E già con quel ritmo, coerente, che va avanti per tutto il libro. È come un libro di poesia camuffato da romanzo».
E poi che cosa ha fatto?
«Mi sono messo a stirare. E poi sono andato a correre a Villa Pamphilj, e mi sono perso».
La casa è uno sguardo sulla storia, personale e collettiva?
«È un libro archeologico. L'archeologo vede edifici e, su quella base, deve ricostruire l'intimità di chi li abitava. Le case raccontano storie e le raccontano in dialogo con il presente, ma non sono mai nel presente. Esse trattengono le cose, e poi le rilasciano, ed è per questo che, a volte, da certe case fuggiamo a gambe levate. Le case sanno, ma magari lo dicono a chi viene dopo».
La casa ci svela?
«Questa è una cosa affascinante. La casa non mente, è come la scrittura: non c'è verso che la casa non dica le cose più importanti di te. Per questo, molti non lasciano entrare gli altri in casa».
E poi c'è la Tartaruga.
«È il top. Per me è la più grande e bella professionista di case, il suo è un monolocale niente male, casa e tomba insieme.
Ed è un elemento di distacco ironico, una forma di preistoria domestica che, di fronte alle difficoltà che vivi, ti dice che sono sciocchezze, per lei che ha visto estinguersi migliaia di specie... È il mio personaggio preferito».
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