Cattafi, l'inattuale inquieto che faceva poesia a sé

"Fuori canone", dimenticato, arrabbiato: torna un suo libro di poesie, implacabile e necessario

Cattafi, l'inattuale inquieto che faceva poesia a sé

Preferì disseminare la sua vita di leggende, a volte improprie, spesso spurie e gettare improperi sul viso laccato, da lacchè, della poesia italica. Di conseguenza: la distrazione della critica ufficiale, da ufficio, la propensione all'oblio, qualche misera vendetta. Nell'antologia che fece canone, Poeti italiani del Novecento (1978), Pier Vincenzo Mengaldo radunò uno stuolo di minori dimenticandosi di un gigante come Bartolo Cattafi. Pronto all'ira, incline al duello, Cattafi pigliò carta, penna, inviando a Mondadori, l'editore di quella ignominia, una lettera senza scampo: «L'antologia del Prof. Mengaldo è a mio avviso il frutto di un'operazione bizzarra, snobistica, estremamente opinabile, rozzamente partigiana». Era il 18 gennaio del 1979: Cattafi, nato a Barcellona Pozzo di Gotto il 6 luglio 1922, morirà due mesi dopo, a Milano.

Aveva pochi, preziosi amici: Giovanni Giudici lo definì, specie di lapide e di lapidazione, «Un poeta alla Hemingway» («Pensavo alla sua vita impulsivamente disimpegnata in tempi che erano, per altri, di grigio e testardo impegno»), Giovanni Raboni gli voleva bene, Sergio Solmi lo capiva («Il tram 23 può anche essere un mostruoso apparecchio che ci rapisce Sergio Solmi, che lo sprofonda nell'Abisso, giù, fino agli Ancestri; oppure può essere un'astronave in partenza dalla Terra»: così ce lo offre, Cattafi).

Alla vita da impiegato a Milano dal '47, si diede al giornalismo poi alla pubblicità preferì quella del viaggiatore. Poteva permetterselo, grazie alla vendita di alcuni terreni di famiglia e a una connaturata indole selvatica. «Certi suoi viaggi in Europa e in Africa e relative situazioni avventurose sono già oggetto di favola tra gli amici», diceva lui, sfottendosi in foggia di poeta-corsaro. «A Siviglia sfuggii per un soffio alla lama di un gitano geloso della sua splendida e infedele fidanzata. Ad Orano, nel 1953, ero perseguitato da alcuni contrabbandieri: la polizia mi dette una scorta di due flic con i quali potei visitare anche le case più segrete della città araba A Dublino, non sapevo una parola d'inglese e non avevo in tasca un soldo: decisi di fare il cieco e mi misi a battere col bastone sul marciapiede». Di certo, nell'estate del '67, Cattafi sposa Ada De Alessandri a Callander, in Scozia, per poi portarla alle Shetland. È lei, ora, con nobile fermezza, a curare l'opera del marito: «Aveva un portamento elegante, un volto illuminato da uno sguardo acuto e ironico... parlava poco, interrompendo i suoi silenzi con spiazzanti battute», ricorda. Un sodale dell'epoca mi ha detto che Cattafi «dormiva sempre con una pistola carica sotto il guanciale»; più di una volta, lui, favoleggiò la Milano di quegli anni, «Il Bar Titta, il Caffè Giamaica, la trattoria delle sorelle Pirovini in via Fiori Chiari... i pittori veri e quelli falsi, le modelle-prostitute, i giornalisti, certi strani tipi, simili a uccelli di passo, che arrivano da ogni angolo del mondo; e poi diversi geni incompresi e arrabbiati che facevano tutto al tavolo: la bevuta, il capolavoro e anche la rivoluzione».

Fin qui, però, abbiamo giocato secondo le regole di Cattafi, un uomo a precipizio nella propria mitomania, che colpisce alle spalle, e scompare. Soprattutto, ci restano i versi, spesso epigrafici, di granitica bellezza, avulsi dal gregge degli ungarettiani, dal giogo di Montale, dai cupi belati del Gruppo 63. Cattafi, come sempre, fa storia a parte, vita apparentata ai nottambuli: esordì nel 1951, con Nel centro della mano, per le Edizioni della Meridiana, morì scrivendo: nel '79 Mondadori, il suo editore, pubblica L'allodola ottobrina. Il libro centrale, L'osso, l'anima, era uscito nel 1964, sempre per Mondadori, con un risvolto di Raboni che parlava di «una vera e propria avventura metafisica», prossima «al buio grumo parlante dei romanzi di Beckett». Il libro, che ora ritorna in una edizione del centenario per Le Lettere a cura di Diego Bertelli (pagg. 376, euro 23), va letto accanto ad altri libri diversamente decisivi usciti in quegli anni: IX Ecloghe di Andrea Zanzotto (1962), Nel magma di Mario Luzi (1963), Poesia in forma di rosa di Pier Paolo Pasolini (1964), Variazioni belliche di Amelia Rosselli (1964), Gli strumenti umani di Vittorio Sereni (1965). Se ne capisce, così, il magistero implacabile, inattuale, stilita, il verbo ridotto a selce, poesia scarnificata fino all'esattezza ambigua, continuo rogo di sé. Così, per dire, una poesia come La tigre, depurata da ogni enfasi cardinalizia, è poesia autentica, alchemica: «In qualche luogo qualcuno/ impartisce impulsi,/ pesa, coordina, misura,/ non ci è dato vedere in quale cielo/ agisca la macchina armoniosa./ Ai nostri deboli lumi/ appare la ferocia del congegno,/ la calda tigre/ che cavalchiamo a pelo».

Per quasi un decennio, Cattafi preferì la latitanza letteraria; la poesia tornò, improvvisa, compulsiva, totale, dal 1971.

Tra l'altro, in estro torrentizio, Cattafi pubblicò L'aria secca del fuoco (1972), Marzo e le sue idi (1977), un'antologia di Poesie scelte. Che la sua poesia resti per lo più incompresa, in un paese di poeti pressapochisti, servi della propria nenia, non desta sorpresa. Aveva lo sguardo di uno sempre all'erta.

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