"Cattaneo non basta più" Il federalismo (e l'Italia) secondo il "prof" Miglio

Da tecnico, diede un significativo contributo alla "costruzione" della Lombardia attuale

"Cattaneo non basta più" Il federalismo (e l'Italia) secondo il "prof" Miglio

Gianfranco Miglio (1918-2001) è stato uno dei più autorevoli scienziati della politica del secondo '900. Autorevole sia sul terreno della ricerca, della produzione scientifica e dell'attività accademica, sia sul versante della riflessione teorica e dell'elaborazione dottrinaria. Nei fatti, il professore lariano non è stato solo un acuto studioso. È stato anche un originale pensatore politico, che dall'immediato secondo Dopoguerra ben prima del Referendum del '46 e dell'elezione dell'Assemblea Costituente ha abbracciato l'opzione federale. E l'ha sempre sostenuta con energia e solide argomentazioni.

All'indomani della conclusione del secondo conflitto mondiale, partecipò attivamente al movimento del Cisalpino, che di fronte alla prospettiva della rinascita dello Stato, una volta archiviati la monarchia dei Savoia e l'autoritarismo fascista in favore della repubblica e della democrazia si batteva per un ordine politico federale in chiave nazionale, fondato sull'articolazione macroregionale e ispirato al modello cantonale svizzero. E metteva sul banco degli accusati l'unità politica e istituzionale del 1861, censurando il processo di State building, cioè il progetto di costruzione dello Stato realizzato dai Savoia. L'idea di una repubblica federale che i cisalpini auspicavano li portava a rivedere le letture convenzionali, riabilitando i filoni ideologici e le progettualità politiche dei «vinti» del Risorgimento. A cominciare da Carlo Cattaneo.

Miglio non ha tuttavia mai abbracciato sino in fondo questa interpretazione della vicenda italiana dall'unità in poi. La sua lettura era più raffinata. Non ha mai scritto molto dei federalisti risorgimentali. Anzitutto perché nessuno di loro era un vero pensatore politico. Cattaneo compreso. Da rigoroso storico delle dottrine politiche, Miglio rubricava la pur ampia polifonia di voci risorgimentali al massimo come un confronto fra idee politiche, non certo ascrivibili al rango di «dottrine». Alla metà dell'800, il dibattito teorico e dottrinario secondo Miglio non attraversava una fase di «particolare vivacità», poiché «nessun grande ingegno, nessuna autorevole scuola tenevano il campo: emergevano solo modeste personalità, più politiche che scientifiche».

Ma vi è di più. Miglio era anche uno scienziato della politica e cercava di analizzare la dinamica dei fenomeni nel loro divenire. Per tale ragione, in una seduta della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali guidata da Massimo D'Alema, disse che «non servono più Carlo Cattaneo e Vincenzo Gioberti». Il nuovo federalismo sarà fatto di strutture politiche «a tempo determinato». E ha una fisionomia opposta rispetto a quello tradizionale.

«Mentre, ancora nel secolo scorso, il problema dominante scriveva Miglio era come fare di ogni pluralità di paesi minori un più o meno grande Stato nazionale, oggi la questione cruciale è come restituire o assicurare, alle convivenze particolari, il diritto a conservare e sviluppare la loro identità nel quadro di sistemi economico-politici non dominati dai principi dell'unità e della omogeneità». Il foedus, accordo politico fondativo della federazione, si era ormai trasformato in un contratto a tempo tra comunità autonome impegnate a raggiungere obiettivi comuni e poi destinate a rescindere il patto.

Il «nuovo» federalismo teorizzato da Miglio si collocava oltre la fine dello Stato. Anche il suo modello di Costituzione federale presupponeva l'eclissi della statualità tradizionale. Grande invenzione della civiltà europea occidentale, lo Stato inteso quale ordine politico prodotto dalla modernità aveva imboccato da molti decenni una deriva di irreversibile declino, connessa alla crisi dello ius publicum europaeum, espressione dell'Europa statalista. Era destinato a morire, secondo una visione vitalistica delle istituzioni politiche, che non sono eterne.

Dentro la vicenda storica dello Stato moderno bisogna collocare la dinamica di quello italiano, che nacque su fragili basi a cominciare da quelle giuridiche e amministrative. L'accentramento ebbe degli effetti negativi sul sistema istituzionale, che subì l'applicazione estensiva degli istituti giuridici della «piccola patria» subalpina al resto della Penisola, imponendo «a un gigante il vestito di un nano».

I temi del federalismo, del regionalismo e del decentramento politico e amministrativo animarono il dibattito all'Assemblea costituente. Ma il disegno di federalizzazione non raccolse adesioni. E fu sostituito dalla regionalizzazione. Progettato da Cesare Correnti e da Pietro Maestri nei dintorni dell'unità, il regionalismo si fondava su basi burocratiche e statistiche, non già su studi seri, finalizzati a valorizzare la storia, la cultura e le tradizioni civiche delle singole comunità territoriali. La regionalizzazione venne adottata dai partiti alla Costituente come una sorta di maschera del centralismo, in funzione anti-federalista.

L'autonomia e il decentramento non posero affatto lo Stato repubblicano in prossimità del federalismo, come sosteneva uno dei padri della Costituzione, Piero Calamandrei. Il regionalismo fu anzi concepito allo scopo di arginare eventuali prospettive federaliste. Nei fatti, l'articolo 5 sul quale si è costruita la falsa idea della Repubblica delle autonomie e dello Stato regionalista formalizza un'idea marmorea di sovranità. Tutto il potere è depositato al centro. E qualsiasi forma di decentramento si configura ancora oggi come una graziosa concessione a favore della periferia. Questa dinamica è opposta rispetto ai veri processi di federalizzazione, che muovono in direzione ostinata e contraria, dalla periferia verso il centro del potere.

La nascita delle Regioni nel 1970 non rispose a dinamiche autonomistiche, bensì a logiche politiche e di potere, legate al sistema dei partiti. In mezzo secolo di vita, il regionalismo ha funzionato male perché l'attribuzione di nuove competenze al sistema regionale è avvenuto su un impianto centralista qual è appunto quello della Costituzione repubblicana. Con la nascita delle Regioni e l'attribuzione di funzioni legislative e amministrative sulla carta sempre più ampie, non si è infatti regionalizzato lo Stato centrale.

Non solo. Nella sua qualità di tecnico delle istituzioni, il professore diede un significativo contributo alla «costruzione» della Lombardia attuale. Se c'è un parallelismo fra Miglio e Cattaneo è quello intorno all'idea di Lombardia. Quattro anni prima delle Cinque giornate, Carlo Cattaneo diede alle stampe le sue Notizie naturali e civili su la Lombardia, grande affresco di quella regione «naturalmente e civilmente dalle altre distinta». Una regione che si adagia su una pianura fertile e densamente popolata, ricca di acque e con un clima mite sino alla fascia pedemontana. A questa realtà «mancava solo un popolo, che compiendo il voto della natura, ordinasse gli sparsi elementi a un perseverante pensiero».

Ma l'evoluzione della prosperità materiale e morale vale a dire l'incivilimento di una comunità territoriale non piove mai dal cielo, non è un dono della natura, per quanto possa essere generosa. È piuttosto il risultato dell'impegno e della dedizione al lavoro, del senso del rischio e del primato dell'intelligenza produttiva che alberga nella mentalità e risiede nello spirito e nelle tradizioni civiche dei lombardi.

Nelle ultime righe delle Notizie, Cattaneo elenca i grandi successi del genio lombardo nelle lettere e nelle arti, nella filosofia e nella matematica, nel campo dell'idraulica e dell'agricoltura. Afferma che «noi» lombardi, «senza dirci migliori», possiamo reggere il paragone con qualsiasi altro popolo. Aspettiamo tuttavia che «un'altra nazione ci mostri, se può, in pari spazio di terra le vestigia di maggiori e più perseveranti fatiche». E conclude: è una «scortese e sleale asserzione» quella che attribuisce tutto «al favore della natura e all'amenità del cielo».

Nessun popolo infatti «svolse con tanta perseveranza d'arte i doni che gli confidò la cortese natura». È il manifesto ideologico dello spirito lombardo, quello di Cattaneo. Una celebrazione quasi apologetica, che Miglio auspicava venisse studiata da tutti gli alunni delle scuole primarie lombarde. Aveva ragione.

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