Poeta di successo planetario, autore di opere come il Childe Harold's pilgrimage e il Don Juan, Pari d'Inghilterra, difensore di nobili cause, boxeur dilettante e gran nuotatore nonostante una fastidiosa menomazione fisica, amante dissoluto, ribelle, esule, combattente per la libertà dei popoli: Lord George Gordon Byron (Londra, 1788 Missolungi, 1824), fu tutto questo, preda di dirompenti contraddizioni che ne alimentarono la forza vitale, portandolo a diventare una figura tra eroica e demoniaca ma esemplare e a marchiare in maniera indelebile la propria epoca. Fu un dandy, come Lord Brummel, un poseur, ma fortissimamente tormentato dal senso del ridicolo, da cui nasce la autoironia che compare nei suoi diari, oggi leggibili nel volume Un vaso d'alabastro illuminato dall'interno, in uscita da Adelphi (pagg. 304, euro 14; a cura di Ottavio Fatica; edizione che nasce da una precedente, edita da Theoria nel 1989 per la cura di Malcom Skey).
Per sua ammissione, queste pagine di diario furono scritte per trovare sollievo dalla stanchezza, e per tenersi lontano dalla poesia: vanno dal 1811 sino a poco prima della morte nel 1824, e i luoghi toccati sono Malta, Londra, la Svizzera, l'Italia e la Grecia. Ma non ci si aspettino annotazioni di viaggio e descrizioni di paesaggi, solo le pagine svizzere del 1816, l'anno cruciale dell'abbandono dell'Inghilterra, parlano di ghiacciai, rocce, pini, nuvole, torrenti, ponti, laghi, con colori degni di un Turner o di un Friedrich. Per il resto, il diario è focalizzato sulla vita quotidiana dell'autore. A Londra è tutto pranzi di gala e incontri mondani. Conosciamo i suoi gusti alimentari, mai carne, spesso storione e spessissimo champagne, ma sappiamo che può vivere una settimana intera con una tazza di tè e qualche biscotto secco al giorno. Fuma sigari Avana, ma ritiene migliore il narghilè, e rimpiange la qualità del tabacco e dei cavalli turchi. Dei gusti sessuali, da cui avrebbe avuto tanti guai, parlava probabilmente nelle parti bruciate dei diari: non sappiamo niente delle sue passioni omosessuali di studente a Cambridge, niente delle sue tendenze incestuose e sodomitiche. Ma sentiamo le sue opinioni sul matrimonio, brillanti nella migliore tradizione inglese: «Nessuno è mai migliorato col matrimonio», «Tutti i miei coetanei ammogliati sono calvi e insoddisfatti», «Non so cosa venga di buono da una giovane sposa», arrivando alla conclusione che è meglio restare scapoli, per quanto non gli dispiacerebbe «di tanto in tanto avere qualcuno con cui sbadigliare».
Conosciamo i gusti letterari, espressi senza troppe mediazioni. Adora Walter Scott, il «Monarca del Parnaso», con il quale gli piacerebbe tanto ubriacarsi. Il sonetto gli sembra «il genere di composizione più piagnucolante, paralizzante, più stupidamente platonico» e detesta Petrarca sino al punto di ingiuriarlo, chiamandolo «quel bacucco astruso e frignone...». Non gli piacciono i letterati, se non sono uomini di mondo, come Scott, o ribelli visionari, come Shelley: e almeno su questo come dargli torto? Le sue opinioni politiche appaiono estreme, prova «avversione a qualunque governo esistente», sa che «la ricchezza è potere e la povertà schiavitù», spera addirittura, lui inglese, nella vittoria di Bonaparte, e, lui che ha un seggio alla Camera dei Pari, esalta la Repubblica. Nel diario ravennate, tenuto nei primi mesi del 1821, quando ormai Byron è di casa in Italia, leggiamo della sua frequentazione di Teresa Guiccioli, nuova amante, e di suo fratello, il conte Pietro Gamba, capo dei carbonari, che lo introduce nel clima risorgimentale. La sua giornata tipo viene schematicamente descritta così: «16 gennaio 1821. Letto - cavalcato - tirato di pistola - rientrato scritto - uscito in visita - ascoltato musica - detto sciocchezze - e rincasato». Non è meraviglioso scoprire che quello che con termine un po' trito oggi diciamo «cazzeggio» era praticato da uno come Byron, che non viveva proprio da comune mortale? Ha venti servitori, in grado di diventare soldati e di difendere in caso di attacco la casa dove accoglie i carbonari. Ha un serraglio, con scimmie, falchi e un corvo, che si azzoppa chissà come. Con Teresa, litiga per decidere se è l'amore o no il tema più nobile per una tragedia. E finisce per condividere il destino del fratello di lei lasciando precipitosamente gli Stati Pontifici e riparando a Pisa e poi a Genova. Le ultime pagine del diario sono scritte in Grecia, nel 1823-24, dove Byron sbarcò con l'idea di mettersi a capo della rivoluzione dei patrioti contro l'impero Ottomano. È incantato da Itaca, che vede come il «degno pendant della Troade», visitata tanti anni prima. Ma si trova, come tra i carbonari italiani, circondato da lotte intestine che non capisce: lui rivendica di essere lì per combattere non per una fazione, ma per una nazione. Si ripromette, dopo la vendita di un maniero in Inghilterra, di arruolare a sue spese fino a mille uomini. Ma la malattia, di cui nel diario fa in tempo ad annotare le prime manifestazioni, dieci minuti di convulsioni così forti che due uomini robusti stentano a tenerlo fermo, è in agguato. E raggiungerà così, senza combattere davvero, il paradiso degli eroi.
Quest'uomo che a 23 anni scriveva che il meglio della vita era passato, è anche autore di un verso che suona come un formidabile testamento: «But I have lived, and have not lived in vain».
Goethe nel Faust II lo trasfigurerà in Euforione, simbolo di libertà e giovinezza. Mazzini, nel saggio su Goethe e Byron, scriverà di lui che «l'eterno spirito dell'intelletto libero da catene non ebbe mai più splendida apparizione tra noi».
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