Ci voleva il permesso per raggiungere le vette del comunismo

Negli anni '70-80 il regime sovietico limitava anche l'accesso alle proprie bellezze naturali

Ci voleva il permesso per raggiungere le vette del comunismo

Si chiamava Picco del Comunismo, con i suoi 7.495 metri era la cima più alta di tutta l'Unione Sovietica: la più ambita dagli scalatori del blocco socialista. O almeno da quei pochi che potevano sperare di arrivare tra le montagne del Tagikistan per cimentarsi nella sua avventurosa salita. Nei sogni degli alpinisti socialisti il Picco del Comunismo andava a braccetto con il Picco Lenin, una vetta di 7.134 metri nel massiccio Pamir, oggi al confine tra il Kirghizistan e la provincia autonoma del Gorno-Badakhshan, in Tagikistan. Due cime dove glorificare anche in alta montagna i traguardi del socialismo reale, «perché sotto Stalin l'alpinismo venne fortemente incoraggiato: dipinto come un'eroica lotta militare e scientifica contro la natura inospitale».

Lo racconta uno dei testi contenuti in Alpinisti illegali in Urss, secondo volume di Viaggiare controvento (Keller Editore, pagg. 144, euro 14,50, a cura di Cornelia Klauss e Frank Böttcher), raccolta di reportage e testimonianze che narrano dei viaggi segreti che i giovani della Ddr compivano in Unione Sovietica. Segreti perché, pur se si proveniva da un Paese altrettanto socialista, l'Urss rimaneva di difficile accesso, impossibile da visitare per chi non aveva un invito ufficiale. E i giovani scalatori, tanto attaccati alle pareti quanto distaccati dalla politica, non erano certo il tipo di persone che le istituzioni moscovite invitavano volentieri.

Così, a partire dagli anni Settanta ai giovani alpinisti della Ddr non rimase che provare a entrare illegalmente nel Paese fratello. Non aggregati a nessun gruppo ufficiale, passavano il primo controllo grazie a un visto di transito, spesso con destinazione Odessa e poi cercavano in qualche modo di arrivare alla propria meta: fosse questa la cima più alta del Caucaso, l'Elbrus, con i suoi 5.642 metri d'altezza, o il lontano Pamir, con il suo rosario di settemila. Molti non ci arrivarono mai, come Hartmut Neil che racconta le sue immense peripezie per raggiungere l'Asia Centrale, dove non riuscì a mettere piede: fu espulso ben prima, più o meno nei pressi di Sebastopoli, in Crimea. E chi ci arrivò, mentendo sempre e comunque alla Sezione visti del ministero dell'Interno, si scontrò con l'inadeguatezza del materiale da scalata che aveva con sé: sacchi a pelo costruiti artigianalmente, scarpe di fabbricazione ceca ottenute di contrabbando, salsicce e verdure sott'aceto come razione, giacche in piuma d'oca cucite in casa. Ma sopratutto mappe disegnate a mano, perché le vette più ambite si trovavano tutte sui confini dell'Impero sovietico, dunque non esistevano cartine dettagliate, solo spazi bianchi.

Ed erano in parte spazi bianchi anche le Alpi nel mondo antico: spazi bianchi eppure popolati, attraversati molto più spesso di quanto si sia soliti pensare da vie commerciali e reti di sentieri che facevano da collante tra il mondo germanico e quello latino. Lo racconta in un libro agile ma avvincente Ralf-Peter Märtin, giornalista tedesco, storico di formazione accademica, amico di Reinhold Messner e ottimo narratore. In Le Alpi nel mondo antico (Bollati Boringhieri, pagg. 135, euro 19), ricostruisce misteri, battaglie e conquiste di quelle che Tito Livio chiamò «infames frigoribus Alpes». Alpi che nel mondo antico non costituivano una barriera, ma una via di transito. Transito di genti e di saperi, di mercanzie - rame e sale dal Nord, spezie e olio dal Sud - e di eserciti: come quello di Annibale che come tutti sanno valicò la catena montuosa con le sue colonne di elefanti, anche se nessuno, come spiega bene Märtin, è ancora riuscito a stabilire esattamente dove transitarono i 36mila uomini dell'esercito cartaginese. Transito che in epoca di pax romana, seguita alle imprese dell'imperatore Augusto, era garantito da 14 passi su cui vigilavano i legionari, per evitare colpi di mano delle riottose popolazioni germaniche, come i Cimbri.

Quelle stesse Alpi che cercava di valicare Ötzi, la mummia del Similaun, forse il più famoso abitante dell'arco alpino in epoca preistorica, sicuramente quello di cui si sa di più. A lui, vissuto nel 3300 a.C. in val Venosta e conservato insieme al suo ricco corredo nel museo archeologico di Bolzano, è dedicato uno dei capitoli più interessanti del libro. Quello in cui si ricostruiscono con i toni del giallo le vicende di questo intrepido viaggiatore neolitico, probabilmente un capo guerriero di una delle tribù che abitava i versanti meridionali: un uomo di 45 anni circa, alto un metro e sessanta, 53 chili di peso e 38 di piede. Un uomo che attraversava le Alpi con una attrezzatura adeguata alla situazione: calzari di pelle di cervo, calzamaglia con brandelli di pelle di capra, arco, frecce, e una sopravveste con pelliccia rivolta all'esterno.

Insomma, leggendo Alpinisti illegali in Urss e

Le Alpi nel mondo antico uno dopo l'altro si capisce che Ötzi era assai meglio equipaggiato degli scalatori socialisti che 5mila anni dopo desideravano scalare le vette del socialismo rivendicando la libertà di viaggiare.

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