Il cinema sommerso: Yorgos Lanthimos

“You know what the fellow said – in Italy, for thirty years under the Borgias, they had warfare, terror, murder and bloodshed, but they produced Michelangelo, Leonardo da Vinci and the Renaissance. In Switzerland, they had brotherly love, they had five hundred years of democracy and peace – and what did that produce? The cuckoo clock”.

Così parlava Orson Welles/Harry Lime nel meravigioso The Third Man di Carol Reed giustificando la necessità di un’instabilità storica e, quindi, esistenziale per la genesi di opere artistiche di valore. Ecco, sostituendo la Grecia odierna all’Italia di Borgia possiamo capire la fertilità di una terra vessata da una profonda crisi economica e sociale, ma capace di fornire una delle cinematografie più vive ed incisive della nostra contemporaneità (basti pensare a titoli come Miss Violence, Attenberg, The Capsule o 45m2), una cinematografia di cui fa parte Yorgos Lanthimos.
Dopo un apprendistato variegato (inizialmente Lanthimos voleva diventare un regista pubblicitario) dove spicca la collaborazione in occasione delle Olimpiadi del 2004, il regista ateniese, come del resto i suoi colleghi ellenici, si lancia in un percorso sperimentale che nel corso della sua cinematografia andrà via via attenuandosi da un punto di vista prettamente visivo, ma che rimarrà intatto in tutta le sue spinosità contestatorie. Fin dal suo lungometraggio d’esordio, Kinetta (2005), Yorgos Lanthimos produce una sequenza d’immagini semplice, che sembra comandata da una mano capace e lineare (vedi Antonioni), ma che tende a rivelare una complessità celata, sub-epidermica che rende la visione volutamente scomoda. Come una classica sedia di legno che in tutta la sua lineare protipicità tende a costringerci in una seduta necessaria quanto nervosa. Ma è dal secondo film di Lanthimos, Kynodontas [Dogtooth] del 2009 (dove tra l’altro si inaugura il sodalizio narrativo con Efthymis Filippou che verrà consolidato nei due film successivi) che la cinematografia del regista greco raggiunge un rigore formale e narrativo che gli permette di convogliare la violenza delle immagini in una perpetua inquietudine che tanto ricorda l’austriaco Haneke.
Con un budget risicato (circa 250.000€) Lanthimos/Filippou costruiscono un film che implode entro le siepi recintate di una villetta, teatro della dittatura domestica che coinvolge una famiglia borghese/industriale, composta da il binomio al comando padre/madre e tre figli (un maschio e due femmine) grandi che, però, assumono comportamenti infantili. La cattività a cui il duumvirato parentale costringe i tre figli si fonda sull’impossibilità per quest’ultimi di lasciare i limiti della propria abitazione che diventa un microcosmo isolato in cui le loro esistenze non maturano con una deriva naturale, ma artificiosa, cristallizzata in un’infantilità coatta. Lanthimos costruisce l’isolamento, indispensabile al mantenimento del potere da parte dei genitori, attraverso un’intricata simbiosi tra la narrazione (condotta dalla meccanicità ritmica della lingua greca e dalla formularità robotica dei dialoghi) e le immagini che non riescono, se non in sparuti episodi, a valicare il confino domiciliare a cui sono sottoposti i tre giovani. Oltre alla riflessione, in senso foucauldiano, della famiglia borghese in quanto istituzione che verrà ampliata nei due film successivi, Lanthimos presenta una violenza domiciliare, allegoricamente incestuosa, che prima di diventare fisica risulta essere linguistica. Come dimostrano le prime scene del film ed il titolo stesso è la costruzione di un vero e proprio lessico alternativo, un vocabolario mitologico, che permette ai due genitori di assorbire il mondo esterno che tenta di infiltrarsi nella reclusione familiare. Costruendo una nuova semantica in cui i significati delle parole scomode (sessuali, politiche ecc.) vengono adattati alle regole interne della casa la dittatura parentale induce un’inversione che non si limita, però, a sconvolgere solamente la comunicazione dei figli, ma anche il loro comportamento e la loro percezione di una realtà comune come la vista di un gatto.

Nel 2011 esce Alps, il secondo lavoro della coppia Lanthimos/Filippou, che conquista il primo riconoscimento ufficiale vincendo il Premio Osella per la miglior sceneggiatura al Festival di Venezia. Benché il ritmo meccanico del dialogo, la violenza sub-epidermica della narrazione, la ricorrenza della danza come movimento liberatorio seguano le tracce iperboliche di Dogtooth, in Alps si realizza un’inversione più che una continuazione del precedente lavoro. Come lo stesso Lanthimos ci suggerisce, l’infermiera protagonista interpretata dalla splendida Aggeliki Papoulial (che fa parte di un eccentrico gruppo, Alps, che fornisce il servizio di sostituzione dei cari deceduti a domicilio) compie un movimento inverso rispetto alle mire liberatrici che soggiacevano alla resistenza ostinata della figlia maggiore in Dogtooth, sempre interpretata dalla Papoulial. Alps, infatti, mostra un movimento centripeto, “an opposite journey” di effrazione in cui la protagonista tenta di stabilire una relazione emotiva e fisica con i parenti dei deceduti che sostituisce part-time. Si cerca di esorcizzare lo smarrimento della propria condizione esistenziale (che risuona nelle vite spezzate dalla crisi greca) attraverso un continuo e surreale processo di travestimento in cui i quattro componenti di questo gruppo (tra cui troviamo la moglie del regista Ariane Labed) si liberano della propria soggettività alienata per assumerne un’altra che, tuttavia, non lenisce la distanza e la violenza che separano l’essere umano civilizzato. In questo senso, l’incapacità dell’elaborazione del lutto da parte dei familiari, intesi in senso lato di “affetti”, che porta alla paradossale scelta di far interpretare i propri cari deceduti dalla robotica rappresentazione di perfetti sconosciuti, riflette la stessa incapacità emozionale che, in vita, ci impedisce di comunicare gli uni con gli altri. Ed è proprio, come in Dogtooth, il linguaggio che si fa lessico (basti pensare alla scena dove si sceglie il nome “Alps” per il gruppo oppure quella della clavetta) per un mondo che, di fatto, resta indicibile e impenetrabile e che sfoga questa impotenza frustrante in una violenza fisica reiterata. Questa meccanicizzazione del dialogo e del comportamento degli attori, filmati attraverso lo stesso occhio glaciale, rendono la visione “scomoda”, come se il nostro sguardo di spettatore fosse costretto ad assistere alla propria inadeguatezza umana.

Dopo la conferma della capacità narrativa e filmica del duo Lanthimos/Filippou, nel 2015 un consorzio di produttori fornisce al regista greco un budget pressoché centuplicato (4.000.000€) rispetto ai due film precedenti: il risultato è The Lobster. Costituendo un cast franco-anglofono (Colin Farrell, Rachel Weisz, Léa Seydoux, Ariane Labed), che, però, non trascura la sua origine greca scritturando ancora una volta la Papoulia/”The heartless woman”, Lanthimos non stravolge le proprie strutture e ci fornisce una terza variazione sul tema. Dopo una forza motrice centrifuga (Dogtooth), una centripeta (Alps), Lanthimos filma l’iperbolica rappresentazione della genesi di quelle strutture sociali ritenute erroneamente immutabili (vero Salvini?) o naturali come la famiglia e il rapporto di coppia. Come nei due film precedenti, Lanthimos costruisce un mondo aderente alla nostra realtà; da un punto di vista tecnologico o storico, infatti, le vicende di Farrell e compagnia sono ambientate in una dimensione spazio-temporale che non differisce in maniera sostanziale dalla nostra, allontanando, di fatto, il film sia dal genere fantascientifico che da quello distopico. Come faceva il suo dichiarato maestro Luis Buñuel ne L’Angelo Sterminatore, in Viridiana o ne Il Discreto Fascino della Borghesia, Lanthimos non delega la genesi della critica socio-politica all’ambiente che circonda la narrazione, ma bensì ai personaggi ed ai dialoghi che la veicolano, creando una biosfera perfettamente plausibile popolata da parole e cose iperboliche, automatizzate, formulari fino a sfiorare il ridicolo. In questo senso, il mondo di The Lobster dove bisogna assolutamente avere un partner pena la trasformazione in animale a scelta, ci racconta le distorsioni della nostra società apparentemente razionale, in cui la ricerca o la negazione spasmodica di un’immagine a noi speculare (profili social, relazioni affettive con persone con cui “abbiamo molto in comune”, omologazioni sociali) viene realizzata attraverso la costruzione di quella che Michel Foucault chiamava un eterotopia. Infatti, un eterotopia, a differenza dei suoi poli positivi (utopia) e negativi (distopia), costituisce uno di “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano”. E The Lobster, come i suoi due predecessori, genera un simile tipo di spazio che inevitabilmente inquieta, “scomoda” lo sguardo dello spettatore proprie per l’iperbolica prossimità alla realtà che viviamo quotidianamente: “le eterotopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni, perché devastano anzi tempo la «sintassi» e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma quella meno manifesta che fa «tenere insieme»…le parole e le cose”.

Ed è proprio a quest’opera di scollamento, di scardinamento delle nostre rassicuranti verità sociali consolidate che l’opera cinematografica di Lanthimos sembra dedicarsi con zelo ostinato. Ricordando l’etimologia del nome Yorgos (γῆ-terra e ἔργον-lavoro) “il lavoratore della terra”, sembra che Lanthimos, proprio come un buon agricoltore, solchi con il suo vomere acuminato la nostra terra seccata dall’abitudine, riportando alla luce le macerie che vi avevamo nascosto, ma al contempo ridonandole quella freschezza che potrebbe accogliere nuove sementi e quindi produrre nuovi frutti.

Speriamo che le sue braccia non si stanchino di condurre l’aratro cinematografico che diligentemente spingono ormai da una decina di anni in nuove eterotopie, perché di bravi agricoltori nel cinema contemporaneo ne abbiano davvero tanto bisogno.

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