Cioran, l'anacoreta della porta accanto

Pessimista fra i grandi pessimisti, fu anche prosatore affascinante, come nelle lettere all'amico Acterian

Cioran, l'anacoreta della porta accanto

Riconoscere un grande autore in fondo è abbastanza semplice: nelle notti disperate vi siete mai affidati a un brocco? Ecco, Emil Cioran (1911-1995) è esattamente il tipo di autore da leggere durante una notte disperata. Non lo chiamerei filosofo o pensatore per non far torto alla sensualità delle sue frasi: urla di terrore fruscianti come seta. Del resto proprio lui disse la stessa cosa di Shakespeare: «Shakespeare: incontro di una rosa e di una scure». E in definitiva di tutti noi: «All'interno di ogni desiderio lottano un monaco e un macellaio». Rumeno transfuga a Parigi (come Eugène Ionesco e Mircea Eliade), Cioran è semplicemente - semplicemente! - uno dei più grandi prosatori del Novecento. E di che cosa parlano i suoi aforismi, i suoi trattatelli? Degli unici argomenti di cui valga la pena parlare, cioè dell'amore, della morte e di Dio (era figlio di un prete ortodosso).

Adesso possiamo ripercorrere la sua vita anche attraverso le lettere che spedì a Arsavir Nazaret Acterian, uno dei suoi più cari amici, conosciuto negli anni Trenta quando era uno studente fuori sede della facoltà di Lettere e Filosofia di Bucarest. L'orgoglio del fallimento (Mimesis, a cura di Antonio Di Gennaro, pagg. 150, euro 14), nonostante l'andamento ellittico del rapporto epistolare (a un certo punto dal 1936 a Sibiu veniamo catapultati direttamente nel 1968 a Parigi), ci offre incursioni davvero uniche nel privato del pensatore rumeno. Interessanti le lettere della giovinezza, dove qua e là, nei resoconti esistenziali offerti all'amico, la prosa s'addensa e s'infuoca, mostrando già i primi segni di icasticità: «Il mio principale difetto è avvertire, persino in sogno, l'essenziale». Interessanti sono anche le prime disillusioni, che poi lo porteranno nel corso del tempo all'apice della lucidità, a rivaleggiare con i più grandi pessimisti di ogni tempo da Schopenhauer a Leopardi. Durante l'anno di leva assistiamo al crollo degli entusiasmi nazionalisti: «Le innumerevoli idee politiche che un tempo mi sembravano evidenti, ora mi fanno rabbrividire». Quando anche il rifugio temporaneo nel misticismo - soprattutto di matrice orientale - si rivelerà fallace, ecco che le lettere prendono un tono più stanco e livido, ma mai buio.

Arriviamo agli anni parigini, dove le giornate si trasformano in una eterna passeggiata al Luxembourg. Pare di vederlo, Cioran: dalla mansarda austera di rue de l'Odeon, terminata l'ennesima notte di veglia, eccolo aggirarsi nei viottoli brinosi, tra le siepi immerse nei vapori mattutini, sulle panchine ancora gelate. Si è voluto farlo passare, per etichetta e profitto, come Signore del Nulla o Dandy Nichilista, ma il suo pessimismo, al pari degli altri grandi lucidi che lo hanno preceduto, non è né repressivo né essiccato. Al contrario la lettura dei suoi aforismi libera, idrata. E la sua saggezza non è mai calata dall'alto - come quella del santo ulcerato, del buddista in estasi -, perciò possiamo apprezzarla senza timore. Se vogliamo è un autentico anacoreta pop, il guru della porta accanto. Anche quando cade nella trappola di un passaggio pesante - troppo a favore del disincanto per esserlo davvero -, basterà pazientare una manciata di pagine: di tutte le cose Cioran ha la lucidità di offrire veleno e antidoto allo stesso tempo.

Certo, con il passare degli anni si moltiplicano le sue idiosincrasie. Nel giugno 1969 Scrive ad Arsavir Acterian: «Ho rotto con la scena letteraria di qui, e il solo vedere uno scrittore mi fa venire voglia di vomitare». Il disgusto letterario si accompagna spesso a vere crisi depressive, in cui, accanto a speculazioni sul suicidio (che non diventeranno mai pulsioni, proprio perché irretite dalla filosofia), s'interroga sul senso della creazione letteraria vera e propria. Così nel marzo 1971: «Come te, sono molto sorpreso di essere riuscito a trascinarmi così a lungo; e, come te, non so cosa dire alle persone che mi chiedono cosa faccio. Perché non faccio niente, questa è la pura verità. Non faccio niente, e non c'è niente che io possa fare. Con grande difficoltà, sono riuscito a scrivere qualche volumetto. Che senso ha scriverne altri? Che senso ha averli scritti?». Ciclicamente ritorna a ruminare sulle questioni metafisiche, accettando una dimensione spirituale dell'essere, ma negando risolutamente qualsiasi dottrina. Da una lettera del gennaio 1980: «In fondo, l'unica religione che veramente mi seduce è il buddhismo. Ma io non sono buddhista, vivo di contraddizioni che mi impediscono di appartenere a una qualsiasi dottrina. Se la parola libertà ha un senso, essa vale solo per la fedeltà a se stessi. Tutto il resto è menzogna». Per il resto, finge di essere ancora lo studente fuori sede dei tempi di Bucarest, visto che quando può mangia alla mensa universitaria, e va lavorando, a fronte di un'opera totalmente antiaccademica e antisistematica, all'unico pilastro teoretico del suo pensiero. Lo annota nei suoi cahiers: «In tutta sincerità, penso che non ci sia sconfitta più grave del successo, dell'approvazione, del consenso, degli applausi, da qualsiasi parte vengano, fosse pure da persone isolate. Non c'è peggiore umiliazione che essere riconosciuti. Meglio in fondo a una fogna che su un piedistallo».

Ed eccolo là, che ritorna dalla sua passeggiata per rincasare. Ha visto una coppia di amanti vicino a un laghetto, un paio di piccioni becchettare gli avanzi dei turisti, qualche vecchio aprire un quotidiano, cioè quanto chiedeva di vedere.

Non sono che le prime ore del mattino eppure abbandona il Luxembourg. Quando gli studenti del Quartiere Latino lo affolleranno, rincorrendosi per le aiuole, lui avrà già scribacchiato qualcosa, se non altro come paziente scrivano delle sue, delle nostre fisime.

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