Ci sono film senza tempo. E registi senza il riconoscimento che meritano. Ogni volta che passano in tv Lo chiamavano Trinità, Continuavano a chiamarlo Trinità oppure Altrimenti ci arrabbiamo oppure altri titoli di Bud Spencer e Terence Hill gli ascolti restano alti nonostante siano alla millesima replica battendo spesso quelli di talk show in prima serata. Eppure il nome di chi era dietro la macchina da presa oggi non è così popolare, forse per colpa dello snobismo della critica. Così Enzo Barboni, meglio noto come E. B. Clucher, nato cent'anni fa esatti e testimonial di un cinema artigianale che ha fatto storia, non ha ricevuto le celebrazioni che avrebbe meritato. «Mio padre era senza agenti e gli agenti gli dicevano che non sapeva vendersi», dice Marco Tullio Barboni, che è suo figlio ed è il terzo di una «dinastia Barboni» iniziata negli anni Quaranta con Leonida, direttore della fotografia amatissimo da Risi, Monicelli e Anna Magnani, e ora arrivata alla quarta generazione con Ginevra, che sta girando un docufilm su E. B. Clucher e che Black Lab Film Co. ha inserito tra le cinquanta registe più promettenti al mondo. Di certo ha ereditato la voglia di sfuggire i cliché che ha portato il nonno a sconvolgere i luoghi comuni del western e poi della commedia italiana.
«Mio padre amava il grande western e sapeva quanto i cosiddetti Spaghetti western fossero sempre più splatter, come si direbbe oggi. Raccontava che, durante le riprese di Django, di cui era direttore della fotografia, Corbucci arrivava al mattino sul set e diceva sorridendo a Franco Nero: A Fra, quanti ne ammazziamo oggi?».
Allora Enzo Barboni in arte E. B. Clucher («Tutti allora dovevano avere uno pseudonimo, lui prese le iniziali del nome e aggiunse il cognome della madre», ricorda il figlio), ribaltò il genere, capovolse i luoghi comuni e si inventò Lo chiamavano Trinità, girato con pochi soldi vicino a Roma perché «se si fossero scelti posti più lontani, la produzione avrebbe dovuto aumentare il cachet. Così il posto più lontano per Trinità è stato il Parco dei Monti Simbruini a 40 minuti da Roma, mentre per Continuarono a chiamarlo Trinità si spinsero addirittura fino a Campo Imperatore vicino a L'Aquila per la scena iniziale», racconta il figlio che batteva i ciak nel primo Trinità e quindi conosce bene le difficoltà, anche economiche, nelle quali si giravano quei film: «Dopotutto, come diceva Hitchcock, il cinema è quello che inquadra la macchina da presa. Perciò andava bene anche girare la scena iniziale di Trinità, quella con la mucca sul tetto della taverna dove arriva Terence Hill, nelle cave di tufo della Magliana con il rumore in sottofondo delle auto verso Fiumicino».
Testimone diretto di quell'epoca, Marco Tullio Barboni ricorda la passione per la buona cucina del papà e, «naturalmente di Carlo», ossia Carlo Pedersoli ossia Bud Spencer che a un certo punto mise nei contratti la condizione di avere una «cucina con roulotte» nella quale la sua assistente Ida potesse cucinare «rigatoni alla matriciana anche in mezzo al deserto. Io partecipavo poco a quei pranzi perché cucinava in abbondanza come la Sora Lella e dopo mi veniva sonno», racconta Marco Tullio Barboni in viaggio verso Fiume Veneto (Pordenone) dove stasera saranno mostrati supporti audiovisivi e fotografici inediti di una storia italiana, quella di Enzo Barboni che, dopo aver diretto la fotografia per Totò (tra i quali Totò Diabolicus, Lo smemorato di Collegno, Gli onorevoli) affiancò Corbucci anche negli spaghetti western (I crudeli o Django, per esempio) prima di sparigliare le carte e, grazie alla produzione di Italo Zingarelli, far uscire a Natale del 1970 un film che ancora oggi è un classico: Lo chiamavano Trinità. «Ho visto la versione restaurata che ancora oggi gira nei cinema e mi sono accorto che anche i ragazzini sanno a memoria le battute», conferma il figlio che poi racconta di quando nel 1971 Continuavano a chiamarlo Trinità uscì nella stessa data di Giù la testa di Sergio Leone che fece un terzo degli incassi. «Quello causò qualche dissapore con Leone, ma a mio padre di queste cose non importava niente. Diceva sempre: Non inseguo la celebrità, inseguo la felicità».
Girò altri film con Bud Spencer e Terence Hill, alcuni dei quali sono chicche popular come I due superpiedi quasi piatti, Nati con la camicia e Non c'è due senza quattro, oltre ad Anche gli angeli mangiano fagioli sempre con Bud Spencer affiancato però da Giuliano Gemma. Sono film che davvero non hanno età perché garantiscono risate sincere, ingenue anche dopo tantissime visioni e dopo tanti anni, tante visioni, tante repliche. Prima di andarsene nel 2002, Enzo Barboni sottolineava spesso l'orgoglio di avere garantito «il posto di lavoro a tanti bravi tecnici e impiegati» che avevano lavorato ai suoi film.
E anche per questo il Comune di Roma, dopo avergli concesso una medaglia capitolina alla memoria, ha iniziato la procedura per intestargli una via. Un modo per ricordare un artigiano del cinema che ha girato film capaci di attraversare il tempo senza invecchiare.
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