È da oggi in edicola con «il Giornale» il terzo volume della collana «Controstoria d'Italia». In tutto sei libri firmati da Giampaolo Pansa, ciascuno dei quali in vendita a 8,50 euro più il prezzo del nostro quotidiano. Un modo per rileggere e riscoprire la storia del nostro Paese nell'ultimo secolo, dall'avvento del Fascismo sino al giorno d'oggi, passando per la Resistenza, la fine della monarchia, De Gasperi, il Sessantotto Andreotti e la Democrazia cristiana. Dopo i primi 2 libri «Eia Eia Alalà. Controstoria del fascismo» e «Bella ciao. Controstoria della Resistenza» arriva in edicola «Sangue, sesso, soldi. Una controstoria d'Italia dal 1946 a oggi». Seguiranno: «La destra siamo noi. Da Scelba a Salvini» (dal 7 maggio): «Tipi sinistri. I gironi infernali della casta rossa» (dal 14 maggio); «Poco o niente. Eravamo poveri. Torneremo poveri» (dal 21 maggio).
Fu un tragico bluff il Sessantotto. Per di più coperto e difeso da un'ondata di retorica mai vista prima in Italia. Eppure molti politici, molti intellettuali e molti giornalisti lo ritennero un miracolo.
A sentir loro, iniziava una stagione fantastica ed esaltante per la democrazia. Il Sessantotto avrebbe cambiato tutto in meglio: la politica, l'economia, la società, la scuola, la cultura, la famiglia, i rapporti tra maschio e femmina, persino l'educazione dei bambini. A conti fatti non accadde nulla di tutto questo. L'unico, vero frutto fu il terrorismo di sinistra, il mostro delle Brigate rosse.
Nel 1968 andavo per i 33 anni. Lavoravo al Giorno di Italo Pietra come caposervizio delle pagine lombarde. All'inizio del 1969 ritornai alla Stampa di Ronchey che mi chiese di fare l'inviato speciale. Ma al Giorno dovevo occuparmi delle cronache lombarde. Dunque non mi proposero di scrivere neppure una riga sul terremoto che stava iniziando. Questo limite non mi impedì di capire subito quel che sarebbe successo. Ad aiutarmi fu un dettaglio non da poco che mi riportava ai miei anni da studente universitario. E a un luogo per me indimenticabile, dove avevo incontrato i miei maestri e gettato le basi del mio avvenire: Palazzo Campana.
Fu lì che cominciò tutto, se escludiamo le prime vampate di rabbia all'Istituto di scienze sociali a Trento e alla Cattolica di Milano. Il 27 novembre 1967 il Movimento studentesco torinese occupò Palazzo Campana. La spallata, che a molti sembrava soltanto un eccesso di folclore, durò un mese. Poi, fra il Natale e il Capodanno 1968, la polizia obbligò gli occupanti a sloggiare.
Quando appresi dello sgombero, mi dissi che la questura di Torino avrebbe dovuto provvedere subito, sin dal primo giorno. Ci saremmo risparmiati un mese di abusi, di vandalismi, di violenze verbali. E un bordello esaltato da una rabbia fanatica, senza motivo.
Leggevo sbalordito le cronache dell'occupazione e dei cortei che partivano da via Carlo Alberto. E mi domandavo di quale città e di quale ateneo parlassero. Doveva trattarsi di un mondo alieno, Marte o Saturno, non dell'Italia e di Torino. L'università che i capi del Movimento descrivevano con irrisione era l'opposto di quella che avevo frequentato appena dieci anni prima. Anche i docenti erano gli stessi che si erano presi cura di me e della mia istruzione, ma venivano dipinti con falsificazioni grottesche. Luigi Firpo, Norberto Bobbio, Alessandro Passerin d'Entrèves, Guido Quazza, Alessandro Galante Garrone, sino al rettore Mario Allara, erano accusati di essere dei kapò nazisti. E tutto si fondava su una convinzione grottesca: a Palazzo Campana esisteva un lager per torturare i rampolli della borghesia torinese di sinistra che avevano deciso di fare la rivoluzione. A Torino i capetti del Sessantotto sfoderarono per primi un'arma che sarebbe diventata di uso comune negli atenei d'Italia: la deformazione sistematica della verità a danno degli avversari. Pochi si opposero a questo metodo di lotta abituale in tutti i regimi autoritari. Il paradosso è che a rifiutarla erano le destre, compresa quella neofascista. Mentre ad accettarla erano le sinistre, di certo non tutte, ma a cominciare dalla più forte e organizzata: il Pci. Nelle Botteghe oscure, allora governate da Luigi Longo, il successore di Togliatti scomparso nel 1964, emersero due anime. Una era rappresentata da un leader come Giorgio Amendola, un politico abituato a parlare con schiettezza sorprendente. Nel giugno 1968 scrisse su Rinascita, il settimanale ideologico del partito, che il Movimento studentesco era soltanto «un rigurgito di infantilismo».
L'altra anima era quella che chiamai dei pifferai di una rivoluzione inesistente. Nell'autunno del 1968 un giovane pifferaio dal luminoso avvenire, Achille Occhetto, sempre su Rinascita capovolse il giudizio di Amendola. Il futuro Baffo di ferro sentenziò che il Movimento «era parte integrante del più grande processo rivoluzionario». Poi spiegò agli increduli: «I giovani si sono messi in cammino perché siamo entrati in una fase di movimento della lotta per abbattere il capitalismo».
Quando lessi il proclama occhettiano mi misi a ridere. E senza rendermene conto azzardai una previsione che poi si rivelò esatta: «Se questo Occhetto diventerà il leader del Pci, porterà al disastro il suo partito». Ma nel circo dei media c'erano molti giornalisti che non la pensavano come me.
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