Così i quotidiani del 1922 fecero la Marcia su Roma

Nell'ottobre del 1922, Benito Mussolini annuncia al proprio Stato Maggiore la volontà di impadronirsi del potere con un colpo di mano, facendo marciare su Roma le squadre provenienti da tutto il Paese

Così i quotidiani del 1922 fecero la Marcia su Roma

Nell'ottobre del 1922, Benito Mussolini annuncia al proprio Stato Maggiore la volontà di impadronirsi del potere con un colpo di mano, facendo marciare su Roma le squadre provenienti da tutto il Paese. Napoli, 24 ottobre. Si svolge una adunata che vuol essere una sorta di prova generale. Milano, 28-30 ottobre. Mussolini resta a Milano mentre le squadre sono in viaggio. Manovra per evitare lo scontro contro l'esercito e ottenere dal Re l'incarico di formare un nuovo governo. Roma, 30 ottobre. Si forma un governo di larga coalizione, le squadre entrano in città. Roma, 16 novembre. In Parlamento, Mussolini pronuncia un discorso famoso: «Avrei potuto fare di quest'aula sorda e grigi un bivacco di manipoli». Ottiene la fiducia alla Camera.

Questi sono i nudi fatti. Vale la pena di aggiungere che il biennio 1919-1921 era stato il più turbolento (guerra esclusa) dell'Italia unita. Tutto sembrava possibile: una rivoluzione rossa, una rivoluzione nera e anche un ritorno sulla scena nazionale di Gabriele d'Annunzio, reduce da Fiume, sconfitto ma con un prestigio intatto se non accresciuto. Vinse il più scaltro, Mussolini. I comunisti, come vedremo, non avevano capito fino in fondo quanto la guerra avesse rimescolato le carte. Il Vate invece esitò una volta di troppo e finì involontariamente per accelerare i progetti di Mussolini. Su invito del presidente del Consiglio Facta, il poeta aveva accettato di guidare gli ex combattenti in una marcia su Roma da tenersi il 4 novembre. Fu Mussolini a dissuaderlo. Aveva già altri progetti.

Abbiamo tratto queste informazioni da un lungo articolo di Indro Montanelli sulla Marcia su Roma. Faceva parte di un'opera in fascicoli dedicata ai Grandi fatti rivissuti sui giornali d'epoca. L'opera fu pubblicata dalla Editoriale Nuova, la casa editrice del Giornale, nel 1978. Fu un grande successo. L'intervento di Montanelli è chiaro e argomentato. Poggia sulla tesi, che qui non vogliamo discutere, di una natura ibrida della Marcia su Roma: né colpo di Stato né rivoluzione. Intimidazione, piuttosto, della quale Mussolini si servì per farsi consegnare legalmente il potere.

La curiosità, per il lettore profano, sono i giornali in allegato al fascicolo. Il Resto del Carlino del 28 ottobre 1922 si barcamena: non vuole partire con il piede sbagliato ma rivendica indipendenza. La Marcia su Roma non ha fatto che accelerare un passaggio di potere comunque inevitabile ma «il modo offende». Dalle questioni di forma istituzionale si passa all'analisi sociale e qui le cose si fanno interessanti. Il fascismo «non si risolve con uno schieramento di polizia» perché affonda le radici nella crisi «morale e spirituale del popolo italiano nel dopoguerra». Dietro le spalle di Mussolini «urgono le masse a cui si è fatto brillare la speranza di un riscatto politico, economico, sociale, degno dei sacrifici di una guerra». Quanto è arguto il Resto del Carlino, diretto da Nello Quilici, tanto è spaesato L'Ordine nuovo, organo del Partito Comunista d'Italia. L'editoriale si dichiara lontano «tanto dall'esagerato allarmismo che dal semplicistico ottimismo». I leader del fascismo sono «avventurieri» che si trascinano dietro «una massa di sbandati provenienti dalle più diverse classe sociali, uniti solo da un generico desiderio di lotta e dal bisogno di far servire l'inquadramento reazionario al soddisfacimento degli elementari bisogni dell'esistenza». Possibile che nessuno si chieda se per caso in quella «massa di sbandati» non ci siano anche i proletari? Possibile. Infatti l'articolo tira dritto. I comunisti, inquadrati dal sindacato, devono essere pronti a una eventuale ma comunque improbabile «azione diretta e violenta». L'editoriale sembra non tenere conto del resto del giornale, dove troviamo titoli assai allarmati: «Ore di paura per i partiti costituzionali». «La mobilitazione fascista attuata in Toscana». «Eccezionali misure di sicurezza a Milano». «Ordine di mobilitazione fascista a Torino». «La tattica fascista in Sardegna». Ordine nuovo è l'unico giornale a segnalare la «resa» del Vate: «Gabriele d'Annunzio non andrà a Roma» per la prevista celebrazione della vittoria in novembre.

Domenica 29 ottobre 1922, il quotidiano fondato da Benito Mussolini, Il Popolo d'Italia, è in festa: «Lo Stato che noi auspichiamo va traducendosi in fatto». Occhiello: «L'irresistibile vittoriosa riscossa fascista». Catenaccio: «Esultante solidarietà dell'Esercito regolare con la milizia fascista. Mirabile fusione di tutte le forze nazionali».

Il «fondo» è firmato da Mussolini che mette le cose in chiaro: siamo i padroni dell'Italia, non abbiamo fatto la Marcia su Roma per arrivare a una «transazione Salandra». Antonio Salandra, proposto «in ticket» con Mussolini, andrà al Quirinale a declinare l'incarico. Il governo «deve essere nettamente fascista». Poi arrivano le minacce: «Il Fascismo non abuserà della sua vittoria, ma intende che non venga diminuita. Ciò sia ben chiaro a tutti. Niente deve turbare la bellezza e la foga del nostro gesto».

La parte centrale della prima pagina è occupata da un Proclama del Quadrumvirato (Cesare Maria De Vecchi, Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono). Si legge: «La legge marziale del Fascismo entra in pieno vigore. Dietro ordine del Duce i poteri militari, politici e amministrativi della Direzione del Partito vengono riassunti da un Quadrumvirato Segreto d'Azione con mandato dittatoriale». Il Quadrumvirato rinnova «l'altissima ammirazione all'Esercito di Vittorio Veneto. Né contro gli agenti della forza pubblica marcia il Fascismo, ma contro una classe politica di imbelli e di deficienti che in quattro lunghi anni non ha saputo dare un governo alla Nazione». La borghesia produttiva e i lavoratori non hanno nulla da temere dal potere fascista.

Il 28 ottobre, il Corriere della sera, diretto da Luigi Albertini, apriva con un editoriale di Luigi Einaudi in cui si leggeva: «È comprensibile, sebbene doloroso, che anche i fascisti ripetano il vecchio improperio socialista contro gli economisti servi del capitalismo e della borghesia ed orgogliosamente dichiarino che, servi di nessuno, essi sapranno difendere le loro masse contro i capitalisti ignavi e contro i teorici prezzolati della borghesia». Il giorno dopo, il quotidiano milanese è costretto a restare chiuso. Lunedì 30 ottobre, l'apertura è oggettiva: «La crisi nazionale e l'incarico a Mussolini». L'editoriale è combattivo: «Non siamo stati ascoltati dai ciechi e dagli impotenti di Roma, ed è accaduto quello che dopo l'adunata di Napoli si poteva prevedere». Ora è troppo tardi: «Siamo a questo, l'Italia non ha governo di sorta e l'arbitrio è sovrano. Ne sentiamo tutta l'umiliazione. Domenica mattina non siamo usciti perché il Comando militare fascista, in seguito al nostro commento, aveva stabilito di impedire con ogni mezzo la pubblicazione del Corriere». Finale: «Usciamo pertanto, ma per assolvere solo il compito dell'informazione, non quello dei giudizi sui fatti, che intendiamo riprendere solo quando il nuovo governo abbia la volontà prima, e l'autorità e la forza poi, di restituire alla stampa i suoi diritti al riparo da ogni pericolo di arbitrio e violenza». Mussolini, informa un trafiletto, avrebbe detto che «il divieto era già tolto e che di ciò egli era lieto; ma il divieto era stato suggerito da assoluta necessità». Mussolini avrebbe espresso ammirazione «per la fermezza con la quale il Corriere aveva rifiutato ogni specie di controllo». L'appello di Pio XI al popolo italiano occupa un piccolo spazio: il Papa chiede riconciliazione, fratellanza e sacrificio delle proprie ambizioni per il bene comune.

Per il resto, la prima pagina è occupata dalla ricostruzione della crisi e dalla cronaca delle occupazioni fasciste, a volte violente, delle istituzioni di Novara, Mantova, Alessandria, Perugia, Fiorenzuola d'Arda. L'intera seconda pagina è dedicata alle tensioni a Milano.

Per chi voleva capire, i fatti erano chiari. Le prime pagine erano eloquenti nel registrare scontri un po' ovunque nell'Italia settentrionale.

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