Così Ingmar Bergman diresse la propria morte

Dalle ultime conversazioni con la figlia emergono carattere, paure e manie del genio del cinema

Così Ingmar Bergman diresse la propria morte

Aveva pianificato ogni dettaglio per tutta la vita, e non si tirò indietro nemmeno di fronte alla morte. Diede disposizioni. «Non voglio finire in una casa di riposo del cazzo. Voglio morire a casa mia. Non finirò inerme e in balìa dei miei figli. Non saranno ammesse manifestazioni emotive eccessive». Casa sua era a Hammars, di fronte al mare, quello freddissimo dell'isola di Farö, nel Baltico. Qui Ingmar Bergman trascorse gli ultimi anni della sua vita, fino alla morte, il 30 luglio 2007. Non si era più mosso da quella casa tutta in orizzontale, che aveva fatto ampliare anno dopo anno dagli artigiani dell'isola, sempre in lunghezza.

Era arrivato a Farö nel 1965 per girare Persona con la bellissima Liv Ullmann: il regista svedese e l'attrice norvegese si innamorarono, nell'estate dell'anno successivo nacque la piccola Linn (vero nome di battesimo Karen Beate, mai utilizzato), lui era sposato, ci fu uno scandalo, lasciò la moglie (era la quarta, la penultima, prima dell'amatissima Ingrid), si trasferì ad Hammars con Liv, poi i due si lasciarono. Era l'estate del '69, Linn aveva tre anni, e prese in seguito il cognome della madre.

È proprio Linn, la più giovane dei nove figli, ormai adulta, scrittrice e giornalista, che si ritrova vicino al padre Ingmar nell'ultimo anno ad Hammars. Lui ha già iniziato a «perdere le cose»: i ricordi, le parole. Hanno l'idea di scrivere un libro insieme, così programmano una serie di «appuntamenti» per registrare delle conversazioni: sei in tutto, nel maggio del 2007. Quando Linn torna, dopo due settimane, il padre non è più in grado di proseguire, poi in luglio lui muore, e lei dimentica quelle registrazioni. Sette anni dopo, il marito di Linn ritrova i nastri in soffitta, ed è così che nasce Gli inquieti (Guanda, pagg. 402, euro 20), romanzo di una figlia che insegue una madre e un padre fra viaggi, passione, separazioni, regole rigide, telefonate intercontinentali, fratelli e sorelle scoperti all'improvviso, corteggiatori, manie, distanze, e quei ricordi di un genio che si sta spegnendo, ma lei vuole in qualche modo conservare. Linn Ullmann ha quarantotto anni, l'età del padre quando lei è nata. «Io amavo mia madre e mio padre incondizionatamente. Li davo per scontati». Anche se non esiste una foto di loro tre insieme: «Uno era il giorno e l'altro la notte, il giorno finiva dove cominciava la notte, io ero la bambina di lei e di lui, ma, dal momento che anche loro a volte volevano essere bambini, le cose a volte si complicavano». Quando Liv e Ingmar si lasciano scrivono una «lista» di regole da seguire, fra cui quella di trascorrere almeno sei settimane tutti insieme ogni estate, ad Hammars. Non la rispettano: ci va solo Linn, per qualche settimana, in luglio. Deve adattarsi alle regole di casa: finestre sigillate, perché il padre - Pappa - ha il terrore degli insetti (le mosche in particolare) e degli spifferi (ogni conversazione inizia con la domanda: «Senti corrente?»); bagni in piscina ogni giorno, ma non troppo lunghi, perché il padre teme i raffreddori e, se la bambina starnutisce, non gli si può nemmeno avvicinare; tende sempre tirate, perché il padre dice che è la luce a procurargli gli incubi peggiori, a ricordargli la morte; proiezioni di film ogni pomeriggio alle tre, puntualissimi, prima nella casa principale, poi in un fienile trasformato in cinema. Nessuno può toccare i proiettori, tranne il fratello Daniel, che riceve dieci corone ogni volta. E poi ci sono le «sedute», rigorosamente segnate in agenda, cioè i momenti in cui Pappa chiacchiera con la figlia. Le legge i libri di Astrid Lindgren, le si rivolge in terza persona: «Come sta oggi la mia figlia più piccola?» e se lei risponde «bene», lui si arrabbia: «Non voglio parole vuote. Bene, bene. Voglio sapere come stai di preciso!».

«Precisione, amore mio» dice alla figlia, in quelle «sedute» del maggio 2007. Lui teme che la sua creatività sia sparita, non si sente più «come un bambino che gioca», e lei si stupisce: giocare, proprio lui? Allora le spiega: «Da un lato, capisci, sono molto preciso, molto meticoloso... come probabilmente avrai sentito dire dai miei colleghi... Improvvisare non fa per me. Quando ho girato Il flauto magico ero come un bambino che gioca, era un gioco, ogni giorno la musica di Mozart dietro le quinte, ma, sia chiaro, tutto era progettato con estrema precisione». Non vuole che il discorso funebre del pastore (una donna) contenga la minima «improvvisazione». Si fa preparare una bara come quella di Giovanni Paolo II, che ha visto in tv. La morte è lì. La figlia gli fa notare che «la morte è ovunque», nelle sue opere, eppure lui nega di essersene mai «preoccupato»: «La morte come tradizione, come fantasia, sì, però non l'ho mai presa sul serio. Cosa che, naturalmente, adesso devo fare». Ha paura: «Dover essere concreto mi spaventa». Sogna ancora di mettersi al volante della sua jeep rossa e guidare a folle velocità per le stradine dell'isola, o di salire sulla sua bicicletta da donna, o di sedersi sulla panca macchiata, anziché sulla carrozzina. Ma inizia a non trovare più le parole. Qualche mese prima, all'appuntamento per il film, anziché alle solite tre meno dieci era arrivato alle tre e diciassette: la prima «eclissi» della sua mente.

«Credo che buona parte della mia vita professionale abbia ruotato intorno al mio grande amore per le donne» confessa. La figlia: «In che modo le donne hanno influenzato la tua...». Il padre: «In tutti i modi immaginabili, mia cara».

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