Così Lenin uccise il lavoro togliendolo dal mercato

L'introduzione in Russia del "monopolio capitalistico di Stato" determinò un disastroso spreco di risorse

Così Lenin uccise il lavoro togliendolo dal mercato

Ci sono testi, oggi riproposti in occasione del centenario della rivoluzione d'ottobre, che annunciavano, involontariamente ma limpidamente, il fallimento catastrofico del comunismo. È il caso di questa antologia di scritti di Lenin, Economia della rivoluzione (Il Saggiatore, pagg. 521, euro 29, a cura di Vladimiro Giacché), con saggi e articoli del dittatore sovietico relativi agli anni 1917-1923, vale a dire quelli che corrono dalla conquista del potere in Russia da parte dei bolscevichi fino quasi alla morte dello stesso Lenin. Anni in cui Lenin e compagni hanno cercato l'impossibile quadratura del cerchio: tentare di dar vita a un'economia in grado di superare quella capitalista. Si vorrebbe dimostrare, in sostanza, che la lezione di Lenin possa essere ancora utile nel momento in cui il mondo occidentale, e non solo quello, è travagliato dalla crisi economica. Ma i conti non tornano proprio.

Il punto di partenza è noto: la fantastica credenza marxista - ma anche, se vogliamo, di gran parte della sinistra - che, una volta aboliti la proprietà privata e il mercato, il lavoro sia, di per sé, sufficiente a produrre valore. Il lavoro umano non è inteso qui quale mero fattore dinamico di trasformazione della materia, ma come unica espressione autentica dell'universale essenza dell'uomo. È certo che il lavoro produce valore, ma la sola erogazione del lavoro - del lavoro vivo, per usare i termini marxiani - non costituisce affatto la condizione esaustiva dello sviluppo economico e della successiva creazione della ricchezza (per settant'anni, infatti, nell'Unione Sovietica è stata profusa una quantità incredibile di lavoro vivo, ma il solo risultato ottenuto è stata, per l'appunto, la miseria generalizzata).

Secondo Lenin «il socialismo consiste nella distruzione dell'economia di mercato. Se rimane in vigore lo scambio, è persino ridicolo parlare di socialismo». «Il socialismo non è altro che il monopolio capitalistico di Stato». La società va concepita come «un grande ufficio e una grande fabbrica», dove vi sarà «la sostituzione totale e definitiva del commercio con la distribuzione organizzata secondo un piano», affinché lo Stato-Partito sia in grado di «tutto correggere, designare e costruire in base a un criterio unico», giungendo in tal modo alla «centralizzazione assoluta». Siamo, come si vede, alla piena affermazione della statalizzazione dell'economia che si rivela il passaggio obbligato per la realizzazione della società comunista. Nel piano unico di produzione e di scambio l'assenza dei prezzi di mercato, cioè degli indici insostituibili di scarsità, rende impossibile ogni razionale calcolo economico. Il comunismo, distruggendo il mercato, distrugge non solo il luogo reale dove si produce la ricchezza, ma anche il luogo razionale della sua creazione perché solo il mercato può indicare - grazie alla libera circolazione della moneta - quali sono i beni in eccedenza e quali sono in beni che scarseggiano. La pianificazione statocentrica, e il regime totalitario che inevitabilmente ne consegue, diventano l'unica possibile soluzione della costruzione della società «senza classi». L'illusione è che, se lo sforzo unanime dell'intera collettività, nelle sue diverse determinazioni produttive, fosse coscientemente regolato a priori, ovvero pianificato dall'unicità della direzione, ne conseguirebbe il superamento dell'esito alienante di ogni lavoro individuale, proprio della società borghese. Il lavoro del singolo finirebbe per identificarsi immediatamente con quello di tutti e la sua intrinseca dimensione sociale non avrebbe alcun bisogno di astrarsi nella forma del denaro quale mezzo di scambio. Il legame distorto esistente tra i singoli produttori, generato dalla logica mercantile attraverso l'uso perverso della moneta, proprio dell'assetto capitalistico, verrebbe superato e riportato alla sua autentica base naturale: le due entità, individuo e società, coinciderebbero di fatto in una coscienza indistinta. In tal modo, grazie alla pianificazione, sarebbe possibile instaurare il legame diretto e organico tra prodotto e produttore, e con ciò superare la divisione tra lavoro e appropriazione del lavoro. E con ciò siamo, con questo organicismo totalitario, al trionfo dell'antimoderno. Siamo, insomma, a quell'irriducibile rigurgito reazionario-romantico di rifiuto della modernizzazione che ha caratterizzato il comunismo.

E poiché l'organicismo comunista richiede la duplice assenza della proprietà privata e del mercato, ne deriva che soltanto una volontà politica è in grado di dar corso alla sua realizzazione pratica. La domanda d'obbligo perciò è questa: perché solo una volontà politica, ovvero in questo caso la dittatura, può dare corso alla società organica? Ovvio, perché l'infondatezza scientifica della concezione economica marxista ha generato il fallimento di tutte le sue previsioni, con la conseguenza che la sua edificazione non si configura più come l'esito spontaneo dello sviluppo storico, ma come il prodotto forzato di una precisa decisione, quella di imporre una dittatura laddove la storia e la logica hanno dato torto all'infondatezza delle aspettative.

In conclusione, il comunismo ha prodotto uno sbocco politicamente repressivo e un risultato economicamente fallimentare; due dimensioni che si sono alimentate reciprocamente: la miseria generata dalla pianificazione è stata il risultato circolare della depressione economica scaturita dalla repressione politica.

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