Dice Richard Baldwin che la globalizzazione è cambiata. È per questo che ha scritto il suo saggio La grande convergenza (il Mulino, pagg. 328, euro 28): per «cambiare il modo in cui si è soliti pensare la globalizzazione». Baldwin, professore di Economia internazionale al Graduate Institute di Ginevra, con alle spalle un PhD al Mit con Paul Krugman, insegnamenti a Oxford, al Mit e alla Columbia Business School e consulenze per istituzioni, governi e per la Casa Bianca ai tempi di Bush senior, ne parlerà oggi a Bologna, alla Lettura del Mulino (Aula Magna di Santa Lucia, Università di Bologna, ore 11.30), che quest'anno è dedicata a «Il futuro della globalizzazione. Come prepararci al mondo di domani».
Professor Baldwin, perché dovremmo cambiare il modo di vedere la globalizzazione?
«In gran parte, la globalizzazione ha toccato i lavori del settore agricolo e dell'industria manifatturiera, dato che ha riguardato soprattutto il commercio di beni fisici. La maggior parte dei lavori del settore dei servizi e di quelli altamente qualificati è stata protetta».
Perché?
«Perché molte professioni dei servizi richiedono una interazione faccia a faccia».
E non sarà sempre così?
«La tecnologia digitale sta creando buone alternative al fatto di essere realmente nella stessa stanza. La globalizzazione del futuro sarà l'internazionalizzazione della tendenza al lavoro da remoto: la chiamo tele-migrazione».
Con quali conseguenze?
«Molte persone che lavorano in ufficio, e non hanno mai sentito direttamente la competizione internazionale, presto dovranno affrontarla».
Che cosa si rischia ad applicare una visione «vecchia» della globalizzazione?
«Molti governi progettano delle politiche per aiutare i settori manifatturieri; questa nuova globalizzazione richiederà di concentrarsi sulle professioni dei servizi. Per esempio, con programmi che aiutino i lavoratori cinquantenni del settore dei servizi a riqualificarsi per altri impieghi nel settore».
Sostiene che la globalizzazione esiste da sempre, «da duecentomila anni».
«Gli esseri umani moderni sono apparsi circa 200mila anni fa, in Africa. Nella prima fase della globalizzazione abbiamo umanizzato il pianeta: abbiamo cacciato, raccolto e abitato tutti i luoghi abitabili del mondo. Circa 12mila anni fa abbiamo circoscritto il pianeta creando le città e poi le civiltà. In queste prime due fasi, il commercio di beni fisici esisteva, ma non era molto importante per l'uomo medio».
Che cosa è successo poi?
«La terza fase è iniziata con la rivoluzione del vapore, che ha ridotto drasticamente i costi di trasporto dei prodotti. Mentre l'ultima fase ha coinciso con la rivoluzione dell'Ict - le tecnologie dell'informazione e della comunicazione - che ha abbassato radicalmente i costi di trasporto delle idee e il coordinamento delle attività da grandi distanze».
Il risultato qual è stato?
«La delocalizzazione dei lavori manifatturieri, che è stata così traumatizzante per le nazioni ricche e così essenziale per la crescita rapida di una manciata di nazioni in via di sviluppo in Europa centrale, Estremo oriente e America centrale».
Lei parla di due grandi «spacchettamenti» nella storia della globalizzazione.
«La vecchia globalizzazione - la fase tre - è stata il primo spacchettamento, ovvero la separazione fisica della produzione dei beni dal loro consumo. Il secondo è la quarta fase, la separazione e la delocalizzazione delle industrie».
Perché sono così importanti?
«Il primo ha cambiato il mondo profondamente, nel modo che chiamiamo la Grande divergenza: un mondo in cui c'erano poche nazioni molto ricche, ma la gran parte delle nazioni era molto povera. Il secondo ha fatto sì che un piccolo gruppo di nazioni in precedenza povere si industrializzasse e crescesse molto velocemente. Questa è stata la Grande convergenza».
Titolo del suo saggio.
«La quota di reddito mondiale delle nazioni ricche è sprofondata dai due terzi della fine degli anni Ottanta a meno della metà, oggi».
Perché, anche nei Paesi ricchi, tante persone sono ostili alla globalizzazione?
«I cambiamenti hanno causato delle trasformazioni economiche che hanno costretto moltissime persone a spostarsi dalle fattorie e dalle fabbriche alle città e agli uffici. Questo ha spezzato molte comunità e, più recentemente, ha creato insicurezza».
La nuova globalizzazione ha creato vincenti e perdenti non più solo a livello mondiale, ma all'interno dello stesso Paese. Che cosa è successo?
«La globalizzazione apre una nazione, allo stesso tempo, a maggiori opportunità nel resto del mondo e a maggiore competizione da parte del resto del mondo. A beneficiare delle nuove opportunità di solito sono i cittadini e le aziende più competitivi. Quelli che soffrono per la competizione eccessiva di solito sono i meno competitivi. Così è».
Che cos'è la polarizzazione dei posti di lavoro?
«La polarizzazione deriva dal fatto che, fino ad ora, la globalizzazione è stata legata all'importazione ed esportazione di prodotti. I più istruiti e i meno istruiti tendono a lavorare in settori che non sono esposti a questa forma di globalizzazione. I lavoratori meno qualificati tendono a fare lavori nei servizi che richiedono una presenza fisica reale, per esempio le pulizie, e lo stesso vale per i più istruiti, come i dottori. Le persone con qualifiche medie che lavorano nel manifatturiero sono state colpite più duramente, perché producono beni commerciabili».
Nel libro scrive che il protezionismo ha più senso oggi che nel secolo scorso. Servono più regole e più dazi per proteggere le nostre proprietà tecnologiche, materiali e immateriali?
«No. La chiave è nell'avere politiche nazionali complementari, che aiutino i perdenti ad adattarsi e a cambiare lavoro e capacità, in modo che possano beneficiare delle nuove opportunità. E anche, come già è il caso dei Paesi europei, sono necessarie delle politiche nazionali che aiutino a condividere in larga parte le gioie e i dolori della globalizzazione».
Come considera quindi la politica commerciale del Presidente Trump?
«Il Presidente Trump rappresenta un classico esempio di come cercare di affrontare la globalizzazione del XXI secolo - in cui le reti di produzione internazionale sono fondamentali per la competitività delle aziende di una nazione - con strumenti commerciali del XX secolo, come i dazi. Inoltre, il vero problema negli Stati Uniti è la mancanza di politiche complementari nazionali, che aiutino i cittadini americani ad adattarsi alle nuove sfide e opportunità della globalizzazione».
Si può fare?
«Basta guardare al Canada, che ha un buon welfare state, e che non si trova ad affrontare lo stesso contraccolpo politico che abbiamo visto negli Usa. Quindi ci sono due problemi. Primo, i consiglieri di Trump non comprendono come la globalizzazione sia cambiata - e la maggior parte di loro non capisce neanche il commercio - e perciò hanno adottato delle politiche commerciali che non stanno aiutando i lavoratori americani in generale. Secondo, il grande problema negli Usa è la mancanza di politiche nazionali per aiutare i perdenti a reinserirsi».
Alla fine del libro accenna a un futuro possibile, in cui anche il terzo vincolo, quello dei costi di trasporto delle persone, potrà essere superato. Che mondo sarà?
«Questo è il tema del mio prossimo libro, che uscirà a gennaio del 2019...»
È preoccupato per il futuro dell'economia globale?
«No. Sono un ottimista.
Credo che tutto quello che stiamo vedendo sia più il risultato dell'incomprensione del commercio da parte dell'amministrazione Trump e del suo rifiuto di assumere e ascoltare consiglieri capaci. Spero che le elezioni di Mid-term agiscano da freno per queste politiche commerciali dannose».
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