Che Cronenberg torni a Cannes in concorso all’età di 79 anni e ad otto dal suo ultimo film è un dono qualsiasi cosa si pensi di Crimes of the Future, sua nuova opera estremamente divisiva.
Indubbiamente si tratta di uno dei titoli più attesi di quest’edizione ma sarà bene che lo spettatore, in casi come questi, si avvicini alla visione con un minimo di informazioni pregresse, pena l’andare incontro non tanto a una cocente delusione quanto all’abbandono vero e proprio della sala.
All’anteprima al Festival il pubblico, eccitato per la grande occasione, ha fatto da cavia. Non si sono viste persone lasciare la proiezione, cosa che lo stesso Cronenberg aveva dichiarato di aver messo in conto in virtù di certi contenuti visivi scioccanti. Eppure la percezione è stata che nel caso fosse avvenuto sarebbe stato per noia. “Crimes of the Future” è infatti un film in cui si riesce ad entrare o che ci si rassegna a subire. Nel primo caso significa che si è intuita la giusta chiave tonale con cui è stato pensato, nel secondo invece si contano i lunghi minuti di quello che appare come un pasticcio grossolano, grottesco e artificioso.
Il cineasta canadese, alla sua sesta volta sulla Croisette (nel 1996 “Crash” vinse il gran premio della giuria), torna a mettere in scena le sue ossessioni e un certo gusto per il perverso. L’attenzione è sempre sul corpo umano ma stavolta in particolare sui suoi organi interni che, inquadrati a distanza ravvicinata, suscitano repulsione sul grande schermo. L’effetto poi si ridimensiona e si trasforma in mero disturbo, dal momento che le stesse immagini si ripetono più volte con le medesime dinamiche. La vera difficoltà non è sopportare quella visuale ma lasciarsi conquistare appieno dall’universo futuristico complesso in cui è ambientato il film.
L’incipit è notevole. “Crimes of the Future” si apre su una landa marina desolata in quello che si intuisce essere un tempo post-apocalittico. Un bambino, sorpreso a mangiare plastica nonostante il divieto di farlo, viene soffocato dalla genitrice. Nulla rispetto a ciò che segue e che ha per protagonista una coppia di performer artist: Saul Tenser (Viggo Mortensen) e la moglie Caprice (Léa Seydoux), ex chirurgo. Sotto gli occhi di un pubblico che non è dato sapere se stia appagando una curiosità scientifica o abbandonandosi a voyerismo estetico, lei si dedica all'asportazione di organi che lui nutre e sviluppa dentro di sé e la cui funzione è sconosciuta. Tale attività attira l’attenzione del padre del bambino ucciso (Scott Speedman) ma anche di Timlin (Kristen Stewart) e Tippet (Don McKellar), investigatori del Registro Nazionale degli Organi, nonché addetti alla classificazione delle mutazioni umane.
La metamorfosi kafkiana è un topos del cinema di Cronenberg fin da quella pietra miliare del sottogenere body horror che fu “La mosca” nel 1986. Stavolta si tratta però non solo di un’indagine sulla fisicità e sulle sue funzioni fisiologiche, ma anche di una meditazione sulla nostra capacità di adattamento come specie. Mutazioni fisiche ed etiche sono la chiave per la sopravvivenza, sembra dire il regista, ipotizzando ad esempio in chiave satirica come risolvere i problemi di inquinamento da plastica: non ci resterà che mangiarla direttamente, previa modifica del nostro apparato digerente. (Del resto alcuni animali sono già in condizione di farlo mantenendo intatte le proprie funzioni vitali).
Il grottesco qui è giocoso vezzo autoriale, ma sulle prime il rischio è che da spettatori non si comprenda se la leggerezza sia intenzionale o se l’insieme sia involontariamente risibile.
Estetica alienante, stile surreale, toni talvolta ironici. Impossibile avere un approccio razionale nell’interpretazione di quanto su schermo. Oltre ai riferimenti alle precedente filmografia del maestro, si sentono assonanze schizofreniche con pellicole diversissime tra loro (da “Blade runner” a “Frankestein junior” fino a “The square”, tanto per avere un'idea).
Cronenberg racconta di un mondo in evoluzione verso un domani incerto in cui l’essere umano proverà piacere nelle modificazioni del proprio corpo, finanche nelle mutilazioni, e la chirurgia sarà una forma di intrattenimento artistico e di godimento sessuale.
Da un lato diverte vedere Mortensen dire “Non sono molto bravo a fare il vecchio sesso”, dall’altro si diventa conservatori di fronte a certa avanguardia dell’erotismo e a ipotetiche future varianti macellaie del feticismo.
Se gli scenari sono stilizzati, veri non-luoghi di imprecisata collocazione, al loro interno troneggiano letti nutritivi, poltrone vertebrali e sarcofaghi tecnologici, funzionali all’allevamento di organi tatuati che cambiano il significato di body art, portando l’opera d’arte a crescere direttamente dentro al corpo dell'artista.
Per un Mortensen cui è richiesto di simulare ora difficoltà di deglutizione ora estasi sessuale, ci sono una Seydoux (qui la migliore a livello recitativo) chiamata ancora una volta al nudo integrale e una Stewart che proprio non convince (pronuncia battute in modo nevrotico e si capisce tardi stia tentando una tonalità alla Woody Allen).
“Crimes of the Future” è una creazione funzionale a esorcizzare la paura della morte e del futuro, forte dell'ipotesi che la sintesi biologico-tecnologico proietti verso un’immortalità plausibile.
Ma più che raccontare come saremo, il film fa da specchio a quel che già siamo: esseri esibizionisti in corsa verso il parossismo di mostrarsi fino alle interiora e godere fisicamente di ciò.Di sicuro il film inquieta, diverte e affascina ma è decisamente un’opera non per tutti e difficile da metabolizzare.
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