«Credimi, niente è più terrorizzante che cercare di far ridere la gente e fallire». Forse John Malkovich, attore, regista e produttore americano, pronunciando queste parole, pensava ai comici del festival nostrano. Tutti, quasi tutti, falliti, triturati dalle tavole dell'Ariston.
Siani e Pintus sono finiti in ginocchio, vittime di se stessi, di testi miseri, di battutine e insultini da cabaret. Prima di loro era toccato a Crozza o Marcorè e a sua grazia Littizzetto, ridetta Xerox per la capacità di riciclare battute. Tutta roba da ridere e non nel senso buono. La comicità è una cosa seria, maledettamente più seria di una gag, ideale per gli spettacoli televisivi di intrattenimento, laddove non si può andare oltre minuti tre, poi tocca a un altro. La frase storica dei fratelli De Rege «Vieni avanti cretino» è perfetta per quello che si è visto e sentito in questi ultimi anni al festival della canzone e dei canzonanti. Non riesco a capire perché sia obbligatorio, forse da contratto Rai-Comune, che sul palcoscenico debbano salire anche i comici oltre ai musicisti, cantanti e ospiti di lusso. Perché? È sufficiente far ridere con la mise di Bastianich che, se uno dei clienti si presentasse dei suoi ventiquattro ristoranti, così come mister Joe si era addobbato mercoledì sera, lo accoglierebbe con le parole già da lui spesso usate per un piatto «non perché fa schifo ma perché hai sprecato spazio di qualcuno che poteva venire qui e veramente dare del meglio». Da scaletta, al punto 5 è previsto: «Al festival bisogna far ridere». Parlando, anzi sparlando di Berlusconi? Massì, tanto poi si pareggia taroccando un D'Alema o un Bersani di risulta oppure riproponendo il genere «imitazioni», quasi a volere dimostrare che non sono solo canzonette ma anche barzellette. Pintus è stato infantile, Siani mediocre, hanno tentato di lavarsi la coscienza e levarsi dai piedi con il pistolotto finale tra riflettori spenti e musica di ambiente, ma è roba piccola. Sanremo fece addirittura male al grandissimo Carlo Verdone che si presentò con Geppi Cucciari per una atroce scenetta per il lancio di un suo film.
L'arte del comico appartiene a gente di spessore, attori, capaci di agire, non saltimbanchi, dico Benigni e ripenso alla follia lucida di Celentano, potrei aggiungere, ma in modica quantità, Chiambretti (sto parlando del festival, ovviamente, nessun s'illuda).
Il resto è polvere di «stalle», cabaret, sono tutti figli di Zelig o Colorado, fucine e cucine di improvvisati artisti, alcuni poi cresciuti ma ristretti nei pollici di un televisore. Lo slogan di Carlo Conti è «tutti cantano Sanremo». Aggiungerei: «Pochi ridono a Sanremo». Purtroppo, si replica.
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