"Dai Nirvana a Vasco. La mia vita dietro le quinte dei grandi concerti rock"

Il presidente di Live Nation, Roberto De Luca: "Gli show devono lasciare il sorriso sulle labbra. Il vero problema? L'eccesso di burocrazia"

"Dai Nirvana a Vasco. La mia vita dietro le quinte dei grandi concerti rock"

Parla con una velocità impressionante, Roberto De Luca. Date, cifre, appuntamenti, prospettive. È presidente di Live Nation Italia, segmento di una delle multinazionali leader nell'organizzazione di concerti, e ha una caratteristica in comune con il primo artista che ha seguito quest'anno negli stadi, Vasco Rossi: «Sono nato il giorno prima di lui nello stesso anno: io il 6 febbraio, lui il 7 del 1952». Oltre ai suoi, De Luca e la sua squadra gestiscono i live di numeri uno come U2, Madonna, Cremonini, Pezzali, Negramaro e via con un elenco lungo da qui a lì, Festival compresi (come il Postepay Milano Summer Festival). In tre decenni, De Luca ha attraversato tutta la parabola dei concerti pop, da frazione residuale dell'industria musicale a elemento portante come oggi. Per dirla tutta, una volta si facevano concerti per vendere dischi, oggi si incidono dischi per lo più per fare concerti. Un radicale mutamento di fronte del quale De Luca è spettatore attivo (e protagonista).

Però all'inizio non sarà stato facile, vero De Luca?

«Non facile ma entusiasmante. Ho aperto Radio Novara tra il '77 e il '78. Le radio erano improvvisate, facevamo di tutto per sopravvivere: dai dj alle playlist fino all'organizzazione di concerti per sopravvivere. C'era anche l'“attacchinaggio” selvaggio sui muri dei concerti in programma».

E come facevate?

«Io avevo una 500, si partiva con il secchiello della colla e si tornava tutti impregnati di colla. Manifesti di Guccini, Bennato, anche Vasco. Roba artigianale, quasi carbonara».

Poi?

«Mi sono trasferito a Milano, ho iniziato a collaborare con Franco Mamone, che allora era il numero uno. Facevamo Pfm, Fortis, Tozzi. Di fronte al mio ufficio in Porta Romana avevo le finestre della Trident, altra grande agenzia di concerti. In seguito ho fondato Bonne Chance, trasformata in Milano Concerti. Facevamo artisti come Bowie, Dylan, Van Morrison, Depeche Mode».

Oltre alla passione, per organizzare concerti ci vuole anche competenza musicale.

«Ho fatto otto anni di Conservatorio di pianoforte al Brera di Novara».

Da pianista a promoter.

«Sentire di essere fondamentale in un successo è una soddisfazione enorme».

Le regole d'oro del concerto perfetto.

«L'artista deve comunicare emozioni, non trasmettere troppa tristezza e lasciare una sensazione di piacevolezza. Chi esce da un concerto deve avere il sorriso sulle labbra».

Riassuma.

«Sorrisi e sudore. Ad esempio De Gregori è un'altra cosa, e non a caso una volta faceva trentamila paganti e ora 1500. Io avrei provato a convincerlo a fare cose differenti».

Il concerto che le ha cambiato la vita?

«Direi quello di Peter Gabriel a fine anni '80».

Il più drammatico.

«Il penultimo della storia dei Nirvana al Palaghiaccio di Roma. Nei camerini c'era Kurt Cobain con il cardigan verde e la testa drammaticamente reclinata da un lato. Ho pensato: stasera non sale sul palco. Poi è salito e ha fatto uno dei concerti più belli che abbia mai visto, intensità straordinaria».

Le rockstar spesso hanno richieste stravaganti.

«Se uno fa 100 concerti in 150 giorni in ogni parte del mondo è legittimo che abbia richieste particolari, specialmente se non può uscire dall'albergo senza essere assalito dai fan. Ma molto è leggenda. Ricordo che Joan Armatrading mi chiese gli spaghetti all'amatriciana. O che i Depeche Mode vogliono il biliardino in camerino. Solo una volta, a un componente dei Bad Seeds di Nick Cave ho fatto notare che la sua richiesta era esagerata: voleva una bottiglia di Brunello di una particolare annata».

Il concerto più difficile?

«Sempre il prossimo che farò. In Italia manca la cultura, anche legislativa, per i luoghi della musica. Ho iniziato con un capitale di 70 milioni di lire e dopo pochi giorni ero a zero perché avevo investito tutto».

È andata bene.

«Sono un uomo molto fortunato e quando ho iniziato ero assai più povero di oggi. Ma in questi anni la burocrazia ha toccato livelli così estremi da rendere quasi tutto oltremodo difficile».

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