Il decalogo femminista delle frasi "proibite"

Michela Murgia elenca le locuzioni da eliminare e rinchiude le donne in "aree linguistiche protette"

Il decalogo femminista delle frasi "proibite"

È da poco uscito il nuovo, fiammante, decalogo femminista di Michela Murgia con tutte le frasi che «noi donne» (generalizzazione che già mi fa rabbrividire) non vorremmo più sentirci dire.

Si inizia con «Stai zitta» che, oltre a dare il titolo al libro (Einaudi, pagg. 128, euro 13), è anche il modo in cui un palesemente maleducato interlocutore ha apostrofato l'autrice durante una trasmissione radiofonica. Si continua con analoghi esempi, citando poco eleganti frasi pronunciate dall'onorevole La Russa o dallo scrittore Corona ai danni delle loro interlocutrici televisive. Mi pare evidente che gli esemplari di maschio in questione non si possano esattamente definire dei gentiluomini di antico stampo, ma mi pare altrettanto evidente che una generale vittimizzazione femminile sia un po' inopportuna, soprattutto per quanto riguarda i dibattiti televisivi. Recentemente, oltre agli usuali berciamenti e zittimenti tipici di entrambi i sessi su qualsiasi rete o programma, mi riferiscono ci sia stata in prima serata anche una raffinata minaccia femminile di lancio di stiletto con annesso conficcamento del medesimo nel cranio dell'interlocutore, maschio. Vi invito a riflettere su cosa sarebbe successo se fosse stato un uomo a compiere un simile gesto, minacciando in diretta televisiva di zittire a scarpate la sua interlocutrice. Anzi, non c'è neanche bisogno di starci troppo a riflettere, probabilmente sarebbe già partita una cavalcata di valchirie social armate dell'hashtag #shoetoo.

Ma andiamo avanti con un altro capitolo del libro, dedicato ad un'altra deprecabile frase maschilista, «Ormai siete dappertutto». Qui si inizia a fare la conta delle donne in posizioni di visibilità o di rilievo e si scopre che «Contare è essenziale e rivoluzionario, perché rileva immediatamente il tasso di biodiversità sociale e quindi di giustizia». Dunque, a parte che «biodiversità sociale» non si può sentire e fa sembrare la presenza femminile una questione ecologica, contare è sempre importante nella vita, ma non è su semplici conteggi che si costruisce il merito. Come si dice a scuola, per il voto finale quello che conta non è solo il risultato, ma soprattutto come ci si è arrivati, ossia lo svolgimento del problema. Bisogna partire dall'inizio, facendo in modo che sia data a tutti la stessa possibilità di avere accesso ad una determinata posizione. Chi poi ci si siederà sarà scelto per le sue competenze e non dovrebbe certo rispondere o sottostare a generali e generiche esigenze di conteggi.

Si passa poi ad affrontare lo spinosissimo tema del «Come hai detto che ti chiami?», cioè come chiamare una donna, e qui ci si incastra subito: non bisogna usare nomi o soprannomi (espressioni di paternalismo), solo cognomi, ma senza articoli, sennò si potrebbe finire nella sgradevole situazione dell'autrice, il cui cognome, se preceduto da articolo determinativo femminile, risulta assimilabile ad un altopiano della Puglia. Mi raccomando anche niente «signora» o «signorina», le donne devono prima di tutto avere un «perché» e non essere definite «per chi». Attenzione anche ai «brava» e ai «bella», pericolosissimi complimenti usati dal patriarcato per stabilire la propria superiorità sessuale nella gerarchia del pensiero.

Un'altra delle frasi stigmatizzate è «Le donne sono le peggiori nemiche delle altre donne», che invece mi trova in totale accordo, in particolare quando si tratta di certi nazi-femminismi. Ma l'amara realtà è che non vi potete fidare neanche della femmina che vi sta scrivendo perché, Murgia ci svela, il patriarcato, servendosi di tattiche astute e subdole, ha bisogno di ottenere la complicità di un piccolo numero di donne per poter fare funzionare i suoi sordidi e perversi meccanismi di potere. Morale della favola, se criticate il femminismo e siete femmine allora siete state plagiate, mentre se la critica viene da un maschio, ovviamene sarà marchiato come maschilista. E cari maschi non provateci neanche a dire «Io non sono maschilista», perché Murgia ci spiega: «Ogni maschio eterosessuale che nasca dentro il patriarcato deve essere consapevole di abitare lo scalino più alto di una gerarchia di ingiustizia». Niente, non avete scampo, se non forse un'unica via di redenzione: quella di innamorarvi di una femminista dimostrando così di voler espiare i vostri peccati patriarcali. «Patriarcato» che, pagina dopo pagina, diventa come le logge della massoneria, come i microchip dentro i vaccini, come le onde del 5G, come i poteri forti, cioè la scusa perfetta, in mancanza di altre argomentazioni, per una vittimizzazione fine a sé stessa.

L'obiettivo dichiarato di questo libro è quello di scardinare l'impianto verbale che sostiene e giustifica il maschilismo, con la speranza che tra dieci anni nessuno più dica le frasi catalogate. Ma mi chiedo se questo sia quello che realmente vogliamo e, ancora più significativamente, quello a cui dovremmo aspirare. Vogliamo veramente trattare le donne come una specie in via di estinzione piazzandole in aree protette del linguaggio, trasferendole in riserve innaturali di frasi controllate o addirittura censurate? È questo il terreno su cui vogliamo portare le battaglie per la parità dei diritti?

Per inciso, l'articolo avrei potuto scriverlo anche senza leggere l'imperdibile decalogo murgico, ma il mio rigore scientifico me lo ha impedito e il libro l'ho letto tutto e pure sottolineato.

Questo per dire che non sono io ad essere prevenuta, ma sono questi femminismi ad essere diventati stucchevolmente prevedibili. E comunque, quando qualcuno, maschio o femmina, mi chiede come voglio essere chiamata, tipicamente offrendomi la scelta tra «signora», «signorina» o «dottoressa», io rispondo sempre senza esitazione «principessa».

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