"Descrivere la follia è fare letteratura al bordo dell'abisso"

Lo scrittore inglese (ospite virtuale di èStoria) ci racconta come il romanzo indaga l'anima

"Descrivere la follia è fare letteratura al bordo dell'abisso"

Patrick McGrath è uno dei più talentuosi autori britannici. È un maestro nel descrivere il comportamento psicotico, l'amore malato. Nel riprodurre nei suoi romanzi il pensiero ossessivo e la frantumazione della personalità. Tra i suoi libri si trovano titoli come Grottesco e Follia (editi da Adelphi) o La lampada del diavolo (La nave di Teseo). Evidente perché sia chiamato il Signore del Gotico. Nato nel 1950 in Inghilterra e cresciuto con un padre psichiatra - gironzolando e giocando con i malati del manicomio di Broadmoor accanto a cui risiedeva la famiglia - la sua fantasia si è sviluppata tra le «guglie» della pazzia allucinatoria che vedeva da vicino. Ecco perché ieri al festival èStoria ha parlato, in videocollegamento, di letteratura e follia (che quest'anno è il tema del festival) a margine della proiezione (nella sezione cinematografica della manifestazione) di Spider, film di David Cronenberg tratto da un suo libro. Lo abbiamo intervistato sul tema per il Giornale.

McGrath, perché dal furore di Achille nell'Iliade, passando dalla follia di Aiace in Eschilo e dall'Orlando furioso, la letteratura si è sempre occupata di pazzia?

«Bella domanda. Il tema ci affascina sin dalle origini perché lo scopo, il senso della letteratura è indagare in profondità la soggettività umana. E la soggettività umana contiene la possibilità del disturbo mentale e questa condizione estrema ci affascina. Ci affascina anche solo fatto che ci si possa avvicinare al bordo di questo abisso. Ecco perché ad esempio nella letteratura l'amore romantico portato alle estreme conseguenze è un tema così forte. Perché è un sentimento che porta vicino al bordo dell'abisso».

Quali sono gli scrittori che secondo lei hanno esplorato meglio la follia nella loro narrazione?

«È una domanda complessa. A pelle, mi sento di dire che Edgar Allan Poe è un maestro in questo senso. Un racconto che mi è subito venuto in mente sentendo la sua domanda è Il Barile di Amontillado. La sproporzione del gesto del protagonista, Montrésor, che mura vivo un suo amico, Fortunato, per un'offesa che nemmeno viene spiegata rende perfettamente l'idea della pazzia, della mancata percezione della realtà. Poi un altro autore che in questo senso io trovo bravissimo è Malcolm Lowry. In Sotto il vulcano il lettore segue tutto il percorso del protagonista, fortemente viziato dall'alcol e vorrebbe dirgli: ti prego, non farlo».

Ci sono scrittori come Cervantes o Calderón de la Barca che descrivono delle «pazzie» meno distruttive, quasi un salvifico allontanamento dalla realtà.

«Io non considero quella pazzia. La pazzia è disturbante, per come la vedo io è una frantumazione della personalità. Certo ci sono anche visioni più romantiche della pazzia. Ma quella è un'altra cosa. Leggevo un articolo del País dedicato a Don Chisciotte proprio qualche giorno fa. L'autore diceva che secondo lui Don Chisciotte non fuggiva dalla realtà ma dalla Spagna dei suoi tempi. Forse c'è quello nella metafora del lottare con i mulini a vento. Credo abbia ragione, è la stessa Spagna che ha ispirato i quadri di Goya, che sono come incubi su tela».

Sofocle, parlando della follia di Aiace, dice che l'eroe è chiuso nei «crudeli recinti della follia». Lei la vede così?

«Quando lavoravo negli ospedali psichiatrici e cercavo un senso alla schizofrenia ho capito che chi ne soffre vive in un mondo instabile e incomprensibile, che imprigiona esattamente come racconta Sofocle. La pazzia con la sua instabilità è una trappola».

C'è anche un mito - pericoloso - dello scrittore pazzo. Come se il bipolarismo di Hemingway o l'alcolismo di Poe fossero componenti fondamentali della loro arte...

«Scrivere è follia, nel senso che bisogna assumersi un tremendo rischio, bisogna impegnarsi in una cosa, scrivere un romanzo può durare anni, senza avere idea del fatto se si arriverà in fondo. Si deve abbandonare tutto il resto e farsi delle domande sul proprio talento, che potrebbe non bastare... E questa è una cosa. Però il disagio psichico vero, secondo me, non aiuta a scrivere. Semmai è un freno. Hemingway non ha scritto niente di connesso davvero al bipolarismo. Per scrivere serve tranquillità, concentrazione, serve stare bene. Non penso che un disturbo mentale sia di alcun aiuto alla creatività».

In molti dei suoi romanzi c'è la follia. Cosa l'ha avvicinata al tema e l'ha spinta a scriverne?

«Beh si cita sempre la mia storia personale, il padre psichiatra, l'ambiente in cui sono cresciuto e ho lavorato. Tutto vero. Ma c'è anche il fatto che quando ho iniziato a scrivere ho scelto di narrare in prima persona. Mi era più congeniale. Lavorando così ho iniziato a chiedermi: ma cosa succede se il personaggio che racconta mente al lettore? E quando il lettore se ne accorge? Il narratore inaffidabile è un modo interessante per far capire cos'è la follia. E non l'ho ancora esplorato del tutto, è pieno di potenzialità narrative».

Per le sue narrazioni con al centro la follia parte dalla letteratura scientifica o da altro?

«La partenza di un libro per me è sempre una voce interiore. La sento e la seguo per costruire il personaggio. Poi arrivo a identificare situazioni, un contesto».

Sentire le voci è follia?

«Tutti sentiamo voci interiori. Lo scrittore le usa professionalmente, in un certo senso le evoca. La persona che ha un disagio mentale non può fermare le voci che sente, sono disabilitanti. È molto diverso».

Fare letteratura sul disagio mentale ha valore sociale?

«La pazzia ci spaventa. La letteratura può farci vedere dall'interno cosa prova il malato. Crea comprensione ed empatia. E questo è fondamentale».

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