Esce ora a cura di Eugenio di Rienzo e Fabrizio Rudi, un testo inedito di Gioacchino Volpe: Il popolo italiano nel primo anno della Grande Guerra, arricchito da un'importante introduzione dello stesso Di Rienzo, (Società Biblioteca della Nuova Rivista Storica, Società Editrice Dante Alighieri, pagg. 303, euro, 10).
Volpe, forse il maggior storico italiano del Novecento, tratteggia la situazione del nostro Paese dallo scoppio del conflitto (agosto 1914) all'entrata in guerra dell'Italia (maggio 1915), per poi concentrarsi sul primo anno del conflitto Si tratta di un periodo breve ma intenso, attraversato dal dibattito interventismo, anti-interventismo, che infiammò le piazze e il mondo della cultura. Un dibattito svoltosi soprattutto fra le minoranze intellettuali perché la maggioranza del popolo italiano non era favorevole alla guerra, qualora si consideri che la Chiesa, e con essa i cattolici, i socialisti e la maggior parte dei liberali che si riconoscevano in Giolitti erano contro tale scelta.
Nell'introduzione al testo, Di Rienzo ricostruisce il travaglio intellettuale ed esistenziale che portò Volpe a schierarsi nel campo interventista sullo sfondo generale di un variegato universo ideale e culturale, rappresentato sia da chi approvava il conflitto, sia da chi lo avversava. Vediamo quindi sintetizzate le diverse posizioni di Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Guido De Ruggero, Gaetano Salvemini, Cesare De Lollis, Francesco Saverio Nitti, Luigi Einaudi e molti altri che qui non è possibile ricordare.
La maggior parte di coloro che volevano l'entrata in guerra era mossa da un sentimento patriottico, spesso trasbordante in un nazionalismo acceso; altri vedevano nella lotta contro gli Imperi centrali il momento di riscossa per la libertà e l'indipendenza dei popoli; altri ancora, l'occasione di una esperienza esistenziale unica e irripetibile, nella quale era possibile esprimere forza, coraggio, eroismo, sacrificio, onore, vitalità, disprezzo della morte. Queste varie motivazioni le ritroviamo presenti non solo negli interventisti italiani ma anche negli interventisti francesi, tedeschi, russi, inglesi, austriaci, cioè sia fra chi combatteva nel campo della Quadruplice Alleanza, sia fra chi combatteva nel campo della Triplice Intesa, divenuta poi duplice per il voltafaccia italiano.
L'interventismo di Volpe scaturiva dal suo nazionalismo di matrice liberale, sostanziato da un realismo storico e politico che riconosceva la legittimità di ogni nazione a perseguire una politica di difesa dei propri interessi. Nel caso dell'Italia questa politica doveva tradursi nel rafforzare la propria posizione nel bacino adriatico, soddisfacendo le aspirazioni irredentistiche verso Trento e Trieste. Il suo interventismo ponderato, come viene definito da Di Rienzo, si distingueva dall'irredentismo democratico, a cominciare da Salvemini, che concepiva il conflitto come una sorta di bellum iustum combattuto per ampliare le libertà dei popoli contro la vecchia Europa dinastica e reazionaria. Per Volpe l'azione militare andava perseguita come una vera e propria «guerra parallela», da condursi con lealtà e sincero spirito di collaborazione, a fianco dell'Intesa, ma senza abdicare alle peculiari finalità politiche e strategiche del nostro Paese.
Il nazionalismo liberale di Volpe si basava sull'idea che l'organismo nazionale fosse un'entità storica, non biologica, «etnia» non «razza», ovvero stratificazione secolare di un patrimonio culturale, naturalizzatosi col susseguirsi delle generazioni. Intesa in questo modo, la Nazione poteva rivendicare il diritto di espandersi in ragione dello stadio raggiunto dalla propria civiltà. Ciò non significava, ad esempio, porsi sulla stessa linea di Gentile, secondo cui questa tendenza espansiva avrebbe dovuto coincidere con la volontà di potenza dello Stato quale vero creatore soggettivo della nazionalità.
Per Volpe, invece, non era possibile prescindere dal fattore storico. Nazione equivaleva per lui a un legame comunitario, dove ogni cittadino aveva la possibilità riconoscersi in un destino collettivo.
In questo
modo, avrebbero trovato ampio spazio le élites intellettuali e le classi dirigenti, a cui era affidato il compito di preservare e alimentare questo carattere storico-culturale, via maestra della nazionalizzazione delle masse.
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