"Dogman", umanità e violenza nel miglior film di Matteo Garrone

Sospesa tra realismo e astrazione, va in scena un'indagine sull'animo umano e sul fragile confine tra innocenza e bestialità

"Dogman", umanità e violenza nel miglior film di Matteo Garrone

"Dogman", il film di Matteo Garrone in concorso al Festival di Cannes, si ispira liberamente ad un fatto di cronaca nera accaduto trent'anni fa e noto come il delitto del "canaro della Magliana". Garrone non intende ricostruire i fatti come si dice che siano avvenuti, non c'è traccia delle efferate e truculente sevizie che ai tempi restarono incise nella memoria collettiva. Quel che sembra interessare al regista è raccontare per immagini una storia che ha diversi elementi di universalità e che parla di paura, ingiustizia e desiderio di accettazione.
"Dogman" è un viaggio doloroso nella psiche di un uomo qualunque, un invisibile come tanti che, a un certo punto, si ribella non per vendetta ma per volontà di riscatto.
Siamo nell'estrema periferia di una città (Roma dall’accento), un luogo derelitto i cui abitanti sono abbandonati a se stessi e disaffezionati alla legalità. Qui vive un uomo, Marcello (Marcello Fonte), che è titolare di un modestissimo negozio di toelettatura per cani. E' gentile, innamorato della figlia e degli animali di cui si prende cura, va fiero della propria condizione e di essere benvoluto dalla piccola comunità cui appartiene. Anche se in verità, per arrotondare, spaccia occasionalmente cocaina e tra i clienti ha Simoncino (Edoardo Pesce), un ex pugile la cui prepotenza tiene in ostaggio l'intero quartiere. Il rapporto con questo energumeno è di tale sudditanza che Marcello ne diviene il riluttante complice in alcuni reati di cui è l'unico a pagare le conseguenze. Quando si rende conto di come aver sopportato angherie e umiliazioni sia stato vano, decide di riappropriarsi della propria dignità.
Attori straordinari e una fotografia meravigliosa sono le carte vincenti di un film costruito per sottrazione ma costellato di dettagli pieni di significato.
A metà tra favola nera e western suburbano, "Dogman" è un'opera in cui la convivenza di neorealismo e astrazione offre suggestioni inedite e potenti.
Siamo in una brutale indagine sulle dinamiche tra vittima e carnefice ma soprattutto sul limite di sopportazione dell’essere umano e sulla metamorfosi indotta dall'istinto di sopravvivenza.
Sospeso nel tempo eppure concreto, il racconto prende vita in un microcosmo di frontiera che è rassegnato al proprio squallore e in cui l'unica traccia di umanità percepita è l'amorevole disposizione d'animo di un individuo come Marcello. E' facile entrare in sintonia con lui, con le sue fughe nel sogno di andare con la figlia in Mar Rosso o nelle immersioni che si regalano insieme. La sua capacità di ritagliarsi spazi in cui esprimere una certa ingenuità fanciullesca, muove tenerezza. S'illude che riuscire ad ammansire i cani più feroci sia garanzia di saper fare altrettanto con i bipedi più temibili, dimenticando che alcuni di loro non meritino né l'appellativo di essere umano né quello di bestia.
Marcello è vittima, prima ancora che del prepotente locale, dell'aspirazione a essere bene accetto dal proprio gruppo sociale. L'impotenza e la frustrazione, il trovarsi isolato e additato come traditore dagli amici di un tempo, lo conducono a un punto di rottura in cui la sua natura sottomessa e mite cede il passo a un lucido delirio. Credendo di compiere l'impresa eroica di far giustizia per sé e per tutta la comunità, scende in un abisso di violenza per poi comprendere come non esista speranza di riabilitazione in quella landa desolata.


"Dogman" mette a disagio perché crea profonda empatia con quello che gli eventi classificheranno come "mostro".
Alla messa in scena perfetta e alla linearità narrativa si accompagna un messaggio universale devastante e si esce dalla sala atterriti dall'esistenza di un'ineluttabilità del male.

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