«Ho speso tutto in alcol e droga. La vita è una somma di errori, gioie, piaceri: non mi pento di niente. Ho amato, riso, vissuto: vi pare poco?». Questo era Flavio Bucci, attore dalla vita tormentata e piena, tanto da coincidere con quella del suo personaggio più conosciuto, il pittore Antonio Ligabue, portato sul piccolo schermo con grande successo nel 1977. L'interprete torinese è morto ieri d'infarto a Passoscuro, nei pressi di Fregene, dove risiedeva. A darne notizia ha pensato, con un post sul suo profilo Facebook, il sindaco di Fiumicino, Esterino Montino: «Quando un artista se ne va, lascia sempre un gran vuoto. Un grande caratterista, di quelli che hanno fatto grande la cinematografia italiana», ha scritto. In tanti ricordano l'attore, classe 1947, in certi ruoli memorabili: da Il Marchese del Grillo, accanto ad Alberto Sordi, a Suspiria del maestro dell'orrore Dario Argento, fino a Il Divo di Paolo Sorrentino.
Nato a Torino da una famiglia molisano-pugliese, originaria di Casacalenda, in provincia di Campobasso, e di Orta Nova, in provincia di Foggia, Bucci si era formato presso la Scuola del Teatro Stabile di Torino. Dove nel 1973 lo notò Elio Petri, che lo volle protagonista del film La proprietà non è più un furto. «Se ripenso a un maestro come Petri, mi dico che mi son goduto la vita. Ho commesso tanti errori e stupidaggini, ma nulla è accaduto invano e ho collezionato la bellezza degli incontri. Grazie alla professione mi sono identificato in più vite, ho avuto il cervello continuamente in moto, conoscendo un destino non normale, sublime, appagante», raccontava con l'enfasi stanca di chi è provato da vodka, cocaina e una cinquantina di sigarette al giorno. La sua particolare fisicità, fatta da un corpo massiccio sul quale s'innestava una faccia stralunata, dai lineamenti spessi e strapazzati, serviva alla grande nel mondo dello spettacolo, sempre in cerca di presenze evocative. Dopo aver lavorato con Giuliano Montaldo nel film L'Agnese va a morire (1976) e Il giorno prima (1987), i suoi personaggi cinematografici sono quelli d'un caratterista di razza. Come non dimenticare il suo Don Bastiano, prete che ne Il marchese del Grillo di Mario Monicelli (1981), prima di essere impiccato dice: «Adesso, pure io posso perdonare chi mi ha fatto male: in primis, al Papa, che si crede padrone del cielo; in secundis a Napulione, che si crede il padrone della terra e, per ultimo, al boia, che si crede il padrone della morte. Ma, soprattutto, posso perdonare a voi, figli miei, che non siete padroni di un cazzo!».
Gli autori amavano Flavio Bucci: Gabriele Salvatores lo volle nel suo film di debutto Sogno d'una notte d'estate (1983). Ma Bucci non seppe sfruttare la notorietà da borghese coscienzioso. In teatro guadagnava anche due milioni al giorno, ma in cocaina bruciò stando a quanto dichiarava sette miliardi. «Cos'è che fa bene? Lavorare dalla mattina alla sera per arricchire qualcuno?», sfotteva. Due matrimoni falliti e tre figli, quasi cento film interpretati, ultimamente era in mano agli usurai. Quando riuscì a calcare il palcoscenico, con una sua interpretazione di Shylock, nel Mercante di Venezia di Shakespeare, sul tema dell'usura commentava: «È ancora più presente oggi e ne so qualcosa personalmente: sono stato vittima di usurai, l'ho vissuta sulla mia pelle. Ho dovuto ricorrere agli strozzini».
A breve avrebbe dovuto intraprendere una tournée teatrale, portando in scena E pensare che ero partito così bene, regia di Marco Mattolini. Una pièce dove raccontava la sua storia. «Non mi dite che non devo fumare. Non mi dite che non devo bere.
Di qualcosa bisogna pur morire, no?», ripeteva Flavio, da ultimo seguito dal fratello Riccardo e dalla ex-moglie, l'olandese Loes Kamsteeg, anche madre del suo terzo figlio Ruben, mentre i primi due figli, Claudio e Lorenzo, li aveva avuti dalla precedente compagna Micaela Pignatelli.
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