Alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia è la volta dell’attesissimo Dune, film fuori concorso di Denis Villeneuve. Il regista di “Arrival”, presentato qua al Lido cinque anni fa, e del discusso sequel “Blade Runner 2049”, sembra avere finora firmato pellicole di fantascienza propedeutiche alla realizzazione dell’odierno kolossal.
Ad adattare per il grande schermo il complesso universo descritto da Frank Herbert nel suo romanzo del 1965, aveva provato David Lynch nel 1984 e già all’epoca fu evidente che la trasposizione fosse difficile quando non impossibile.
Nel caso di Villeneuve si può ben dire che con il primo lungo capitolo di cui è protagonista Paul Atreides (Timothée Chalamet) dona allo spettatore un’esperienza che non è immersiva solo a livello visivo, bensì esistenziale.
Come noto ai fan, l’intreccio vede due casate nobiliari, gli Atreides e gli Harkonnen, contrapposte in quello che è un intrigo non solo politico. La profezia messianica dell’avvento di un eletto pesa infatti sulle sorti dell’Imperium e su quelle di un pianeta, Arrakis, le cui risorse fanno gola a tutti. Siamo nell’anno 10191 e la spezia che qui si trova mista alla sabbia del deserto è venerata dalle popolazioni native come un allucinogeno sacro ma, in quanto carburante per viaggi interstellari, ha un valore inestimabile per troppe persone.
Paul Atreides (Timothée Chalamet) viene addestrato per essere pronto. Ufficialmente alla ricezione dell’eredità paterna, in realtà anche a divenire ciò che è stato profetizzato da secoli che sia: il salvatore in grado di cambiare il futuro della galassia. Impara a combattere in scontri corpo a corpo ma anche a padroneggiare un potere nella voce che gli proviene per parte materna (Rebecca Ferguson), fino ad ottenere il benestare della Reverenda Madre, sopraggiunta a setacciare la presenza o meno in lui di istinti animali prima che erediti un così grande potere. Sua la battuta più bella: “è sprecato in un maschio un simile potenziale”.
Attraverso i sogni premonitori di Paul pregustiamo l’arrivo di personaggi come la giovane Chani (Zendaya), creatura che, come gli altri della sua etnia, vive in completa simbiosi con il deserto di cui conosce e rispetta il potere.
Il giovane Timothée Chalamet, un po’ per stile e un po’ per pallore, è perfetto nei panni del futuro reggente (del resto non è nuovo nel ruolo). Se è una star non è per il bel faccino circondato da tirabaci naturali: il ragazzo, già visto al Lido due anni fa con “Il Re”, ha un carisma evidente ma soprattutto, cosa rara, una luce tutta sua, sullo schermo e fuori.
Non che il resto del cast sia da meno: Javier Bardem, Rebecca Ferguson, Zendaya, Oscar Isaac e Josh Brolin (solo per citare chi era oggi presente con il regista in conferenza stampa) non fanno certo da semplice contorno. Senza dimenticare che nel film, per chi non colga la beltà dell’esile protagonista, c’è un sex symbol di tutt'altro aspetto, Jason Momoa.
Ridurre “Dune” alla trama o al cast all star sarebbe però quasi blasfemo. Del resto stiamo parlando di un libro dal valore profetico: scritto negli anni Sessanta, racconta con lauto anticipo molto di quanto accaduto successivamente e affronta tematiche divenute sempre più attuali. Il film, proprio come il romanzo di partenza, mischia fantasia e temi non solo reali ma fortemente attuali, tra cui la lotta per la sopravvivenza, la commistione tra religione e politica, lo sfruttamento selvaggio delle risorse del pianeta, la disuguaglianza tra ricchi e poveri.
In “Dune” la relazione con la natura ha un respiro ampio e una profondità viscerale, ma si parla anche del peso di un’eredità nobile perché portatrice di un’etica d’alto lignaggio più che di sigilli e cerimoniali.
Durante le tre ore di durata, tra elicotteri con ali di libellula, pugnali sacri, vermi giganti sotterranei, tradizioni tribali e tecnologia indigena, è assolutamente impossibile distogliere lo sguardo o cedere a momenti di stanchezza.
A intrattenere ci sono composizioni visive dalla cromia perfetta, costumi allo stesso tempo di grande rigore e magnificenza, (ora quasi operistici, ora essenziali), coreografie militari in stile Terzo Reich e una colonna sonora invasiva ma giustamente poderosa firmata da Hanz Zimmer. A fare da raccordo, panoramiche infinite di una natura sì desertica, ma dalla bellezza immacolata. Non importa quale sia nell’insieme la quota di computer grafica, perché l’effetto finale, appunto, è speciale.
La fantascienza degna di questo nome, soprattutto al cinema, mostra scenari e futuri probabili ma anche alternativi, rendendo accessibile ciò che non sembra poterlo essere. Non solo. Nutre il suo pubblico potenziandone le risorse dell’inconscio, che si trova arricchito di interrogativi inediti e di nuovi confini mentali.
“Dune”, nella fattispecie, ci ricorda che c’è molto da imparare, magari anche solo osservando un piccolo topo del deserto, e porge un protocollo per gestire la paura: attraversarla per poi lasciarsi andare al flusso dell’esistenza e, infine, riprendere quota agendo al momento giusto. Ecco il modo per uscire incolumi anche dalla tempesta peggiore, esistenziale e non.
Pensato, scritto e girato per essere
visto su grande schermo, il film uscirà nelle sale il prossimo 16 settembre e saprà sedurre anche chi non ama la fantascienza, perché un tale splendore epico, visivo e creativo non può lasciare indifferenti.
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