E se fosse stato davvero il Re a far cadere Mussolini?

Un «reportage storico» ricostruisce le ore cruciali della fine del fascismo. Fra misteri, ipotesi, rivelazioni

E se fosse stato davvero il Re a far cadere Mussolini?

Il 25 luglio 1943 era domenica. A Roma la giornata, una calda e bella giornata estiva, sembrava trascorrere tranquilla ma la sensazione che fosse già accaduto, o stesse per accadere, qualcosa di grosso era nell'aria. La pittrice Leonetta Cecchi Pieraccini, animatrice di un vivace cenacolo intellettuale, appuntò nella sua agendina queste parole: «Aspettavamo diversi amici che viceversa non sono giunti: e ci è mancato così il conforto di scambiarci reciprocamente opinioni e notizie. La inquietudine degli animi è generale, e raggiunge spesso il carattere di paura. Paura non si sa di che cosa. Di tutto. Oggi è festa e i giornali non ci sono».

Si sapeva, in giro, che nella serata precedente e durante la notte si era svolta la seduta del Gran Consiglio del Fascismo, ma non se ne conoscevano i particolari. Il giornalista Ugo Indrio, condirettore di Roma Fascista e redattore del quotidiano Lavoro Fascista, dovendo preparare la consueta nota politica per il settimanale, decise di recarsi a Palazzo Wedekind, dove da qualche mese era stato trasferito il direttorio nazionale del Pnf e dove vantava alcune amicizie, in cerca di notizie. Non ne trovò, vide soltanto volti preoccupati e se ne tornò preoccupato a casa dove si mise a scrivere la sua rubrica che non sarebbe mai stata pubblicata.

Fu solo nella tarda serata, alle 22,45, che venne data notizia ufficiale attraverso la radio delle «dimissioni» di Mussolini e della nomina a capo del governo di Badoglio che lesse il proclama con l'infausta e ambigua frase: «La guerra continua». Tutti furono colti di sorpresa. Accanto alle reazioni popolari - di giubilo per la supposta fine delle operazioni belliche e per la caduta del regime o di ventilati timori per il futuro - cominciarono a diffondersi le voci più fantasiose come quella secondo la quale Italo Balbo era vivo e avrebbe presto fatto sentire la sua voce da una radio clandestina.

Di quanto era davvero accaduto durante la drammatica seduta del Gran Consiglio del fascismo non si sapeva, ovviamente, nulla. E ancor meno si sapeva di altre «congiure» immaginate o tentate, supposte o reali che avevano provocato la fine del regime. Ancora oggi, comunque, non tutto è chiaro sugli avvenimenti di quella torrida estate del '43. Non sono pochi i misteri che li avvolgono né gli interrogativi senza risposta che li circondano. A cercare di mettere ordine nei dati della grande sciarada del 25 luglio 1943 è un piccolo, ma denso e delizioso, libro di Pier Luigi Vercesi dal titolo La notte in cui Mussolini perse la testa. 24-25 luglio 1943 (Neri Pozza, pagg. 224,weuro 13,50), che si legge come un thriller storico ma che, in realtà, pone sul tappeto questioni storiograficamente significative. A cominciare da quella sulla effettiva rilevanza della seduta del Gran Consiglio ai fini del crollo del regime, che in un certo senso potrebbe essere considerato come il risultato di una sorta di «implosione interna» del partito.

Alla convocazione del Gran Consiglio del Fascismo, che non si era più riunito da oltre tre anni, si era giunti per la richiesta di alcuni gerarchi riuniti presso la sede del partito per discutere le iniziative propagandistiche messe in piedi dal nuovo segretario del Pnf all'indomani dello sbarco alleato in Sicilia. Sorprendendo tutti Mussolini aveva aderito alla richiesta e Vercesi ventila l'ipotesi, peraltro ben plausibile, che, anziché di un cedimento del dittatore, si fosse trattato di un suo calcolo, di una sua «astuzia» per lasciarsi aperta la strada a mosse successive non esclusa quella di una trattativa separata di pace.

Comunque sia, la vicenda della convocazione del Gran Consiglio è uno dei tanti punti oscuri di questa storia. Non è l'unico: perché, per esempio, Mussolini non volle che durante la seduta ci fosse, com'era uso, uno stenografo? E perché, ancora, rinunciò al servizio di guardia dei «moschettieri del duce»? E perché, infine, non reagì di fronte all'esito di una votazione che metteva di fatto in crisi il regime? Non è ipotizzabile che tale comportamento fosse dovuto al suo stato di salute, è più probabile che egli fosse ancora convinto di avere in pugno la situazione sia per quanto concerneva il rapporto con Vittorio Emanuele III sia per quel che riguardava l'ipotesi di uscita dalla guerra.

Durante la riunione del Gran Consiglio a Palazzo Venezia venne allo scoperto l'iniziativa che Dino Grandi, il «conte diabolico», aveva preparato nei giorni precedenti con l'aiuto di altri congiurati fra i quali Luigi Federzoni e Giuseppe Bottai. L'ordine del giorno, poi approvato e che prevedeva la restituzione al Re dei «poteri militari e politici», era stato portato a conoscenza di Mussolini due giorni prima dal suo stesso estensore, che propose al duce di rinunciare alla riunione e di riconsegnare al re il mandato di Capo del governo. Anche qui non c'era stato nessun tentativo da parte di Mussolini di reagire. Un altro mistero.

La «congiura» di Grandi era andata avanti preceduta da frenetici incontri con i gerarchi. Ma, accanto ad essa, molti altri intrighi si erano sviluppati. A corte e fuori della corte. C'era la Principessa di Piemonte, Maria José, che cercava contatti in più direzioni. C'erano ambienti vaticani che scalpitavano attorno a ipotesi cervellotiche di coinvolgimento di Umberto o, persino, del genero del duce, Galeazzo Ciano. C'erano, poi, esponenti della vecchia classe dirigente liberale che avevano assunto come punto di riferimento Ivanoe Bonomi e Alberto Bergamini nelle cui abitazioni si riunivano intellettuali in odore di fronda. Ma, come osserva Vercesi, «ben scarso peso» ebbe sulla caduta del regime questo «coagularsi» di antifascismo tradizionale.

Un altro attore, poi, si muoveva sulla scena ma, soprattutto, dietro le quinte. Era il re Vittorio Emanuele III, che si appoggiava sul fedele ministro della Real Casa, il conte Pietro d'Acquarone , sui militari fedeli alla Casata e, anche, su settori della diplomazia tradizionalmente monarchici. Secondo Vercesi «l'unico a tenere il bandolo della matassa» fu proprio Vittorio Emanuele III, «un uomo dal carattere complicato, introverso e controverso, umiliato da Mussolini quando gli sottrasse prerogative e, al tempo stesso convinto che il duce fosse la gran testa in grado di tenere insieme l'Italia». Fu lui che, giocando d'astuzia, preparò «l'uscita di scena del dittatore» attendendo e facendo in modo che fosse lo stesso Mussolini «a costruirsi la trappola di cui sarebbe rimasto vittima». Il «golpe del re», insomma, fu quello davvero determinante che «utilizzò» le altre «congiure», a cominciare da quella di Grandi. Il che, per inciso, spiega anche il comportamento, apparentemente ingenuo o passivo, di un Mussolini convinto fino all'ultimo di trovare un appoggio in Vittorio Emanuele III.

È davvero suggestiva la ricostruzione di Vercesi, dagli avvenimenti che portarono alla crisi del regime fino all'arresto del duce e alla nomina di Badoglio: una ricostruzione che, spesso

ridimensionando luoghi comuni e versioni consolidate, mette insieme tanti tasselli come in una appassionante trama da romanzo giallo. A riprova del fatto che spesso la realtà, nella fattispecie la Storia, supera la fantasia.

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